Cent'anni fa erano all'avanguardia. Il 14 agosto del 1857, una speciale commissione governativa decretava il cavaliere Giuseppe Polani vincitore del concorso per il progetto di certi « nuovi stabilimenti carcerari da erigersi in questa Capitale ». Nel 1870, mentre i bersaglieri entravano in Roma, i primi detenuti entravano nella prigione.
Per i tempi, sembrava immensa: il nome di «r Carceri Nuove » le fu dato spontaneamente dai torinesi perché il Polani aveva progettato uno stabilimento che si differenziava nettamente dalle orrìbili topaie del tempo. Si era provveduto,.giusta il bando di concorso, a progettare le celle in modo tale « che il detenuto ci possa leggere e lavorare ». Erano previsti « provvedimenti atti a riscaldare i locali» e addirittura un ingegnoso congegno « per permettere di rinnovare l'aria senza aprire le porte e le finestre ».
Nei 104 anni di vita delle « Nuove », la situazione è peggiorata sotto ogni punto di vista. Oggi, non soltanto l'affollamento delle celle e il loro deterioramento non permette né di leggere né di lavorare, ma anche il riscaldamento è stato cancellato dal tempo. « I detenuti vengono al colloquio tuttiintirizziti: cercano di prolungare il colloquio per godere più a lungo del tepore della stanza dove li interroghiamo », dissero i giudici e gli avvocati ai cronisti di Stampa Sera nel gennaio del '72. A quel tempo, il nostro giornale pubblicò una dettagliata inchiesta sulla condizione del carcerato a Torino: il 15 aprile del '69 le «Nuove» erano state date alle fiamme nel corso della prima di una serie di rivolte. La Pasqua di due anni dopo, i padiglioni bruciavano ancora. Un'altra rivolta con incendio nel '72. Venne a Torino l'ispettore generale del ministero per i luoghi di pena, dottor Manca, si tenne una riunione in municipio con l'allora sindaco ing. Porcellana. Manca ascoltò una relazione sulla assoluta necessità di trasferire il complesso carcerario. Fece delle promesse, forse una prima realizzazione è venuta con il progetto di cui parliamo a parte.
Dietro la tetra muraglia di corso Vittorio Emanuele 127 centinaia di persone aspettano che il desolato « arcipelago » carcerario italiano assuma, almeno nelle strutture edilizie, un volto adeguato a un Paese che si dice civile e democratico. « In quei padiglioni fatiscenti c'è una bomba sempre pronta ad esplodere », aveva detto un magistrato nell'inchiesta cui abbiamo accennato. E' dunque anche un problema non soltanto di umanità, ma di sicurezza sociale. Come pubblicato lunedì, si è costretti ad arrestare « con moderazione » e a mettere in libertà provvisoria individui pericolosi perché nelle celle delle Nuove non c'è più un posto disponibile.
La Stampa 6 febbraio 1974