Spunta un nuovo collaboratore al processo sulla strage di Capaci, è un ex Poliziotto Penitenziario condannato per mafia: "Un ex poliziotto mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva delle strage Falcone si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita tramite l’utilizzo di skate-bord”.
A parlare è Pietro Riggio, 54enne ex agente della Polizia Penitenziaria e mafioso del clan di Caltanissetta, che dal 2009 collabora con la giustizia, noto anche per aver parlato anche del leader di Confindustria Antonello Montante, e che dallo scorso giugno si è deciso a parlare con i pm nisseni anche di questi aspetti fino a qualche tempo fa rimasti taciuti. La notizia è stata riportata oggi dal quotidiano "La Repubblica" che hanno evidenziato la presenza dei verbali del pentito agli atti del processo d'appello sulla strage di Capaci.
Riggio ha tirato in ballo questo ex poliziotto che chiamavano "il turco".
"Ma perché non ha mai parlato prima di questo ex poliziotto?", gli hanno chiesto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, il 7 giugno dell'anno scorso in un interrogatorio congiunto. Riggio ha risposto che "fino ad oggi ho avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia. Ma, adesso, i tempi sono maturi perché si possano trattare certi argomenti".
Come riportato da Repubblica sul "turco" il pentito non ha fatto solo il nome ma ha anche spiegato di averlo conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Un volta scarcerato nel 2000 l’ex poliziotto lo avrebbe reclutato per fare parte di una non ben identificata struttura dei Servizi che si occupa della ricerca di latitanti. Ugualmente sarebbe stato contattato dalla Dia. Secondo la spiegazione data da Riggio avrebbe dovuto dare una mano per catturare l'allora latitante corleonese Bernardo Provenzano in quanto parente (cugino, ndr) di Carmelo Barbieri, un soggetto legato all'entourage di Provenzano. Riggio, tra le altre cose, ha anche ricordato di essere stato chiamato da pm Gabriele Chelazzi (oggi deceduto, ndr) che al tempo si occupava delle stragi del 1993 ma di fronte al magistrato si "avvalse della facoltà di non rispondere".
Le dichiarazioni di Riggio, ovviamente, vengono scandagliate da tutte le Procure competenti. Per questo motivo, negli uffici della Procura nazionale antimafia i magistrati i pm delle procure di Palermo, Caltanissetta, Catania, Reggio Calabria e Firenze, che si occupano a vario titolo di filoni riguardanti gli anni delle stragi, hanno parlato del collaboratore nel corso di una riunione top secret.
Allo stato le sentenze sull'attentato del 23 maggio, come anche nelle motivazioni del più recente processo Capaci bis, parlano di “ambienti esterni a Cosa nostra” che “si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti ed incoraggiandone le azioni”.
Le rivelazioni del pentito nisseno aggiungono un tassello ulteriore perché, oltre a rafforzare l'idea che dietro l'Attentatuni in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti, non vi fosse solo Cosa nostra, riaprono quella cosiddetta pista del "doppio cantiere" che fin qui era stata poco considerata dagli organi inquirenti.
Così come aveva dichiarato in un'intervista il magistrato Luca Tescaroli, che si occupò dei primi processi sulla strage, aveva dichiarato: "Sulla base degli accertamenti e gli esiti del processo di cui mi sono occupato non fu possibile dimostrare che fu un doppio innesco della carica (due bombe) ma che era possibile accadesse". Infatti va ricordato che lo stesso Giovanni Brusca, colui che premette il telecomando, nonostante abbia sempre sostenuto che le responsabilità fossero solo di Cosa nostra si meravigliò dell'effetto dell'esplosivo.
L'ipotesi del doppio cantiere era emersa qualche tempo addietro quando alcuni testimoni, tra cui il poliziotto Giuseppe De Michele, avevano visto un furgone bianco lungo l’autostrada di Capaci, fermo presso lo svincolo dove c’erano anche operai della Sip (l’allora compagnia telefonica), la sera prima dell’attentato. E tra le "anomalie" emerse nei luoghi del cratere di Capaci vi fu anche il ritrovamento di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti ed il rinvenimento di un guanto dal quale fu isolata una traccia di Dna femminile.
Non solo. Ventisette anni dopo resta un mistero come sia potuto "scomparire" dall'esecuzione dell'attentato Pietro Rampulla, un mafioso della provincia di Messina, ex fascista esperto di esplosivi, che doveva essere l’artificiere della strage al posto di Giovanni Brusca. A detta dei pentiti che hanno fatto rivelazioni sull'attentato del 23 maggio 1992 avrebbe dato forfait all'ultimo minuti, adducendo “impegni familiari”. Ma davvero un mafioso, che fino a quel momento era stato assoluto protagonista nella preparazione dell'attentato, può rinunciare alla partecipazione della strage più delicata della storia di Cosa Nostra per “problemi familiari”?
E non si può non evidenziare l'assoluta precisione dell'esplosione che colpì il convoglio di auto lanciate a 170 chilometri orari lungo l'autostrada. Solo per un evento improvviso l'auto di Falcone rallentò improvvisamente (il giudice tolse le chiavi della macchina) altrimenti sarebbe stata colpita in pieno.
Alla luce di tutti questi elementi vengono in mente ancora una volta le parole di Totò Riina, intercettato in carcere mentre parlava con la dama di compagnia, Alberto Lorusso. "Totò Cancemi dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone: che ci devi inventare, gli ho detto? Se lo sanno la cosa è finita”. A cosa si riferiva il capo dei capi corleonese? Forse proprio alla presenza di soggetti esterni a Cosa nostra e al ruolo avuto nella strage? A queste domande le Procure cercano di dare una risposta.