Ventiquattr'ore dopo la tragedia di Alessandria, facciamo il punto sulla situazione con il ministro della Giustizia: il bilancio consuntivo è terribile; quello preventivo inquietante. La rivolta nel carcere piemontese, per ora, è rimasto un episodio isolato nella sua gravità anche se a Padova, durante la notte, i detenuti hanno distrutto due sezioni: ma tutti guardano con preoccupazione ai prossimi giorni.
«Mancano gli uomini, mancano i mezzi — ci dice il ministro di Grazia e Giustizia onorevole Zagari —. Sono state disposte perquisizioni severissime nei reclusori più importanti alla ricerca di armi, è stata rafforzata la sorveglianza: ma il numero degli agenti di custodia è insufficiente». «Dovrebbero essere quasi quindicimila — dice ancora il ministro —; ne mancano milleotlocento per completare un organico che non è più in grado di fronteggiare la situazione. E' stato bandito il concorso: abbiamo ricevuto, sinora, soltanto 500 domande». Mancano anche i direttori: nel giugno scorso se ne sono andati via 70 su 150 e, inoltre, erano i più anziani, i più esperti, siamo costretti — precisa ancora Zagari — ad affidare la direzione dì tre o quattro carceri contemporaneamente allo stesso funzionario».
I tecnici del ministero avevano pensato di fornire a tutti i reclusori gli apparecchi elettronici per rivelare subito la presenza di oggetti metallici, e quindi di armi: le difficoltà burocratiche hanno bloccato l'iniziativa. Al primo piano del ministero della Giustizia è rimbalzato l'interrogativo angoscioso: la tragedia di Alessandria poteva essere evitata? L'onorevole Zagari è cauto nel rispondere: l'interrogativo lo tormenta da due giorni. Si limita a commentare: «Del senno di poi...», ma aggiunge subito: «La tragedia delle vittime innocenti mi turba come uomo, non come ministro. Tutta la responsabilità di portare a termine l'operazione se l'è assunta il procuratore generale della Corte d'appello di Torino: rientrava nei suoi diritti e nei suoi doveri. Io mi sono limitato soltanto ad invitare tutti alla prudenza: come ministro non potevo fare altro».
L'onorevole Zagari, come responsabile politico del dica stero, ritiene di avere la coscienza tranquilla. «Eravamo a conoscenza — ci spiega — che un'organizzazione qualificata come "Arancia meccanica" e legata ad elementi della sinistra extraparlamentare stava preparando un piano di manifestazioni all'interno delle carceri. Sapevamo anche che il piano poteva scattare in coincidenza con il referendum sul divorzio, perché sarebbe stato questo il momento in cui le forze di polizia impegnate altrove non avrebbero potuto intervenire in aiuto degli agenti di custodia che sono numericamente scarsi». Alla fine di aprile, il ministero ha avvertito tutti gli ispettorati regionali degli istituti di pena che qualcosa poteva avvenire. In particolare avvertì l'ispettorato per il Piemonte di seguire con attenzione il problema ad Alessandria. «Si pensò anche a trasferire trenta detenuti, tra i qua li probabilmente i protagonisti della tragedia — continua Zagari — ma il procuratore generale della Corte d'appello di Torino ci avverti che, in questo modo, avremmo favorito i propositi degli estremisti extraparlamentari, i quali pensavano di riunire o di fare riunire, in questo o in quel carcere, gli elementi più decisi. Anche l'ispettorato per il Piemonte si mostrò contrario a questi trasferimenti per due motivi: innanzitutto non era facile trovare sedi adatte dove mandare i detenuti, indipendentemente dal fatto che, con questa soluzione, avremmo creato altrove i problemi esistenti ad Alessandria; poi il trasferimento dal carcere piemontese avrebbe provocato un grave turbamento fra i detenuti».
Per quale motivo? «Quello di Alessandria è considerato un carcere modello — è la spiegazione del ministro — dove sono organizzati corsi di studio per conseguire diplomi di geometra e ragioniere. Trasferire i detenuti-studenti subito significa costringerli ad interrompere gli studi. L'ispettore generale per il Piemonte ed il direttore del carcere di Alessandria suggerirono di procedere ai trasferimenti dopo il 18 giugno, cioè al termine dei corsi scolastici. D'altro canto, le informazioni sui programmi di "Arancia meccanica" parlavano anche di assalti durante la traduzione dei detenuti da un carcere all'altro. Tutte queste circostanze indussero i responsabili del ministero a controllare la situazione senza procedere a trasferimenti». Qualcosa, però, non deve avere funzionato ugualmente, se fu possibile a Cesare Concu, Domenico Di Bona ed Everardo Levrero d'entrare in possesso di due pistole e di un coltello. Il ministro allarga le braccia ed ammette che non vi sono dubbi.
A chi attribuire la responsabilità? L'interrogativo è difficile: una commissione composta d'urgenza con almeno sette magistrati addetti al ministero della Giustizia indagherà per trovare una risposta. Il problema, però, è soltanto in apparenza, circoscrivibile all'episodio di Alessandria. La questione è molto più complessa e delicata. «Nelle carceri italiane — ha detto pubblicamente ieri un ex detenuto — entra tutto, purché si paghi: anche la droga». L'accusa è grave, ma al ministero non ha sorpreso nessuno, o almeno così sembra, anche se nessuno è in grado di avere le prove per sostenerla.
Il discorso si amplia e coinvolge i criteri con cui vengono reclutati gli agenti di custodia, i loro orari di lavoro, la loro retribuzione. «Lavoriamo 56 ore alla settimana — ha detto senza mezzi termini un agente da due anni, non ci vengono pagati gli straordinari e gli ultimi sono stati liquidati sulla base di 70 lire l'ora, mentre per un giorno festivo abbiamo soltanto 500 lire». E' vero, signor ministro? «Purtroppo è vero — ammette Zagari — anche se inutilmente vado sostenendo che gli agenti di custodia debbano avere un trattamento diverso per cento motivi: perché il loro è un lavoro ingrato, duro, scomodo. Ma questo del trattamento migliore è da mettersi in rapporto anche a due altri motivi: oggi la popolazione carceraria è diversa da quella di ieri ed è molto più evoluta, più ricca; oggi è necessario avere un agente di custodia più preparato, più adeguato ai fini della pena, che deve tendere alla rieducazione del condannato. Il detenuto dev'essere studiato, controllato, seguito e sono necessarie, quindi, persone addette alla sua sorveglianza che siano preparate, tecnicamente qualificate». Un alto magistrato distaccato al ministero della Giustizia mi ha raccontato un episodio che serve da commento più che qualsiasi altro discorso. «Noi qui riceviamo un'infinità di raccomandazioni — ha detto —, soltanto una volta sono stato pregato dì interessarmi perché venisse assunto un agente di custodia. E non l'ho potuto aiutare, perché ardeva un difetto fisico insuperabile, per cui c'è da pensare che questa da noi era l'ultima porta alla quale aveva bussato ».
La Stampa 12 maggio 1974