Nel complesso di Rebibbia l'agitazione più violenta: due feriti fra i carcerati, tre fra gli agenti di custodia - Nel capoluogo ligure giornata più calma, dopo le proteste di ieri - Contusi a Cagliari, durante i disordini, alcuni agenti di sorveglianza Vecchie strutture.
C'è tensione nelle carceri italiane. A Rebibbia, a Marassi, alle «Nuove» domenica pomeriggio si è temuto che la situazione precipitasse e che le proteste si trasformassero in sommossa. Per ora il pericolo imminente di rivolte simili a quelle della primavera del '69 e del '71 pare allontanato, ma le notizie che giungono, soprattutto da Roma, testimoniano che rimane uno stato d'inquietudine profonda.
E' l'espressione evidente del male che travaglia i nostri istituti di pena, un male secolare che sempre più spesso causa sussulti di rabbia. Condannabili nella misura in cui lo sono tutte le forme di violenza, ma comprensibili. Lentezze procedurali, mancata riforma del codice penale, di procedura penale e del regolamento carcerario, ispirato a concezioni talora medioevali, sovraffollamento, condizioni di vita che contrastano con i fondamentali principi civili: ecco i motivi di fondo delle proteste dei detenuti. Bisogna riconoscere che esse trovano una rispondenza obiettiva dei fatti. Le carceri riflettono ed esasperano tutte le contraddizioni del nostro sistema giudiziario.
Il punto di riferimento è costituito dall'articolo 27 della Costituzione. Al terzo comma esso afferma: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La norma contiene un divieto ed impone allo Stato uno specifico obbligo: il recupero del detenuto. Che cosa si è fatto sinora? Sono stati adottati qualche volta rimedi d'emergenza, ma essi sono apparsi semplici palliativi. Il solco tra la realtà del carcere com'è e come dovrebbe essere rimane profondo.
I programmi per l'edilizia ristagnano. Si trascinano di legislatura in legislatura senza trovare sbocchi concreti. E, a volte, quando tutto è pronto per la realizzazione, sorgono intoppi burocratici. Ad Avellino i lavori del nuovo penitenziario sono rimasti bloccati per oltre tre anni, poiché non si trovava un certo tipo di mattone previsto dal capitolato d'appalto.
Risultato: le carceri scoppiano. A Torino le «Nuove» potrebbero ospitare solo 320 detenuti, ma ne hanno di regola più di 500. Nonostante questa eccedenza non si riesce a far fronte a tutte le necessità, tenuto conto che nel nostro centro sono arrestate in media 200 persone al mese. Così si ricorre agli altri istituti del circondario, ancora più inadeguati ed inefficienti. Lo stesso accade a Roma, Genova, Milano, Napoli, Palermo, le città che abitualmente costituiscono l'«occhio del tifone» delle rivolte. Promiscuità tra persone detenute per reati diversi, talora opposti, locali spesso angusti, simili a topaie, freddi d'inverno, surriscaldati d'estate, servizi igienici che all'80 per cento sono ancora basati sul «bugliolo», «bocche di lupo» dove l'aria entra a fatica, docce spesso collettive ed utilizzabili solo in determinati giorni della settimana. Ridotte le possibilità di colloquio con i familiari, escluse quelle con conoscenti, inammissibili anche nel carcere minorile gli incontri con gli insegnanti «esterni», scrutata la corrispondenza. Come si può parlare di trattamento umano?
Le carceri non possono trasformarsi in idillici posti di villeggiatura. Ma certi beni come la riservatezza personale, la decenza devono essere tutelati comunque. La pena detentiva deve consistere esclusivamente nel limitare la possibilità di movimento dell'individuo. Ed in questo quadro dovrebbe essere tenuta nella giusta considerazione anche la libertà sessuale del detenuto, la cui mancanza spesso è causa di aberrazioni.
Il quadro risulta ancora più deficitario se consideriamo l'opera dì recupero. Il personale carcerario, soprattutto a livello di subalterni, non è qualificato, la scuola non funziona come dovrebbe, le biblioteche sono ferme in gran parte al «feuilleton» ottocentesco. Un ruolo preminente dovrebbe essere affidato al lavoro. Ma così com'è regolato non raggiunge lo scopo. Spesso è anche inadatto alla personalità del detenuto. Inoltre è mal retribuito (da 400 a 700 lire giornaliere). Somme irrisorie, dalle quali devono essere detratte decime, spese del mantenimento, del processo e del risarcimento. Espiata la pena, si è carichi di debiti verso lo Stato. Ecco una spinta per nuove imprese criminose.
Appare evidente a questo punto che la riforma carceraria, intesa in senso lato, deve essere una delle scelte prioritarie di uno Stato veramente moderno. Attuarla significa operare a fondo nel tessuto della nostra società e combattere la stessa esplosione della delinquenza. E' una riforma «a tempi lunghi», non c'è dubbio. Nel frattempo si può agire sull'ordinamento vigente. Il regolamento carcerario è quello che è, però con un'interpretazione non letterale, ma evolutiva, nell'ambito dei poteri discrezionali concessi al giudice di sorveglianza, è possibile iniziare sin d'ora quel «dialogo» con il detenuto senza il quale, come ha detto di recente il dottor De Mari, direttore delle «Nuove» di Torino, «il carcere non è in grado né di redimere né di raggiungere le finalità etiche previste dalla Costituzione».