Sebastiano Ardita è il presidente della Commissione Csm sulla magistratura di sorveglianza ed esecuzione pena. E stato direttore dell'ufficio detenuti del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria).
Antonio Cianci, l'ergastolano che ha accoltellato un uomo all'ospedale San Raffaele di Milano, era in permesso premio per far visita alla sorella. La decisione è stata presa dal giudice di Sorveglianza dopo aver ricevuto la relazione dal carcere di Bollate. Nel documento si diceva come Cianci avesse avuto "un cambiamento reale nei comportamenti". Peraltro era stato escluso che fosse ancora "socialmente pericoloso". In effetti per due volte si era comportato bene. È il sistema di concessione dei permessi premio che non funziona? O è un caso a sé?
"Non funziona un sistema in cui la previsione circa il pericolo che si torni a delinquere si basa solo su dati teorici. In altri sistemi, dove le misure alternative funzionano, esiste una verifica quotidiana, con controlli mirati di polizia, sul comportamento tenuto da coloro che ottengono un beneficio. È venuto il momento di puntare sulla Polizia Penitenziaria, l'unica forza di polizia che può fare funzionare le misure alternative, ma deve avere nuovi compiti sul territorio.
Le misure dovrebbero essere concepite come dinamiche, graduali e sottoposte a costante controllo. Se saranno riscritte così la loro incidenza si moltiplicherà e il carcere - come è giusto - sarà destinato prevalentemente ai detenuti più pericolosi. Sarebbe l'attuazione vera e non retorica del principio di pena rieducativa".
Qual è il ruolo di chi opera in carcere e stila relazioni determinanti per le decisioni dei giudici di Sorveglianza?
"È un ruolo importante di responsabilità, mi risulta svolto in modo professionale, quindi non va demonizzato. Ma se rimane un'attività basata solo su dati cartacei e sulla formale buona condotta interna del detenuto, purtroppo non basta".
Cosa pensa, in generale, del ruolo del giudice di Sorveglianza?
"È una funzione altrettanto delicata e va tutelata perché esistono anche i casi di detenuti che hanno cambiato vita e per costoro non sarebbe giusto pregiudicare la concessione dei benefici. Vorrei far notare che nel caso citato il giudice aveva espressamente richiesto nel provvedimento un qualche accompagnamento del condannato per le prime concessioni. Quindi, si era reso conto di questa necessità di controllo e di gradualità. Peccato che ciò che è suggerito dalla logica non è previsto espressamente dalla legge. E soprattutto manca una fase normata sul controllo di polizia".
Questo caso ha fatto parlare di nuovo della sentenza prima di Strasburgo e poi della Corte costituzionale a favore dei permessi premio, su decisione del giudice di Sorveglianza, agli ergastolani che hanno il carcere ostativo, nel caso in cui abbiano rotto con l'associazione criminale...
"Infatti è quello il problema. Immagini quanto sia più difficile essere sicuri che qualcuno non ritorni a delinquere quando si tratta di una organizzazione mafiosa dal cui vincolo si può liberare solo con la morte. E non bisogna neppure dimenticare i debiti che si possono maturare nei confronti di Cosa Nostra, specie se questa, durante la detenzione, ha provveduto ad alcuni bisogni della famiglia".
È un'altra faccia della stessa medaglia o sono cose distinte?
"Distinte, perché tra i detenuti comuni le possibilità di cambiamento di vita dovrebbero essere più ampie. Ma, quando c'è qualcuno più debole che potenzialmente può avere diritto a un beneficio, chi è più forte tende ad assicurarselo per prima".
Il Fatto Quotidiano - Ristretti Orizzonti