A palazzo Chigi è stato pensato come un provvedimento scaccia-problemi, ma il decreto sulle scarcerazioni non ha allentato la catena di diffidenze, ostilità e rischi politici che circondano il ministro Guardasigilli, Alfonso Bonafede. All’ombra della giornata domenicale, che di solito spegne i riflettori mediatici, si è consumato un primo problema: il decreto approvato sabato notte dal governo ha avuto qualche problema nel superare i rilievi di manifesta costituzionalità che spettano alla Presidenza della Repubblica.
La procedura che accompagna un decreto-legge approvato dal governo sino al Colle è sempre informalissima, perché i testi licenziati dai Consigli dei ministri sono «invisibili» e nel corso degli anni questo ha talora consentito modifiche in corso d’opera, finalizzate alla piena operatività e congruità costituzionale dei provvedimenti. Stavolta il decreto è stato firmato dal Capo dello Stato domenica sera, al termine di un approfondito setaccio nel corso del quale si sarebbe arrivati ad ipotizzare un ridimensionamento quantitativo dell’articolato ma a tarda sera la Gazzetta ufficiale straordinaria non aveva ancora pubblicato il testo «vidimato».
Ma non c’è soltanto l’iter accidentato del decreto Bonafede a rendere problematico il futuro prossimo venturo del ministro della Grazia, chiamato nei prossimi giorni a due passaggi parlamentari: il primo dei quali è fissato domani mattina alla Camera. Bonafede è chiamato a fornire un’informativa sulla originalissima vicenda del magistrato Nino Di Matteo, che ha accusato in tv il ministro di aver subito pressioni della mafia. Bonafede ha ottenuto che le sue comunicazioni fossero derubricate a informativa e dunque le Camere non voteranno, cosa che però saranno chiamate a fare in occasione della mozione di sfiducia (ancora non calendarizzata) presentata dal centro-destra.
E su quel voto peserà la vicenda delle scarcerazioni, che non sembrava chiusa col decreto di sabato, che prevede l’obbligo di rivalutazione di tutte le ordinanze sin qui emesse dai magistrati di sorveglianza. Nei giorni scorsi aveva suscitato la protesta quasi unanime dei partiti l’invio ai domiciliari di oltre 400 detenuti condannati per reati di alta pericolosità sociale, considerati a «rischio Covid» e ai quali l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di garantire la certezza di non contrarre il virus. Ma nelle ultime ore – ecco la novità - stanno affiorando voci sull’età degli scarcerati che, confermate, potrebbero creare nuovi grattacapi al ministro.
Più della metà degli scarcerati avrebbero un’età compresa tra il 30 e i 55 anni, una trentina sarebbero under 30 e uno di loro avrebbe 23 anni. Naturalmente sono stati tutti avviati ai domiciliari sulle base di ordinanze ben motivate ma la non alta percentuale di anziani (di regola i più a rischio) è destinata ad accendere l’interesse delle opposizioni parlamentari.
Tutto da verificare ma si tratta di casi che potrebbero chiamare in causa anche il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), una struttura sotto la giurisdizione del ministero della Giustizia. Il ministro comunque ha espresso tutta la sua soddisfazione: «Nessuno può pensare di approfittare dell’emergenza sanitaria del coronavirus per poter uscire dal carcere». Ma attorno al ministro c’è una generale diffidenza: «Il 70 per cento del Parlamento sarebbe d’accordo sulle scelte essenziali per la giustizia – sostiene Enrico Costa, capofila del centrodestra in questo campo – ma Bonafede è come se avesse indosso una cintura esplosiva: lui è il capo-delegazione 5 stelle al governo e forte di questo, prova a paralizzare tutto».
lastampa.it
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