Dopo 24 ore di inutili trattative uno dei banditi punta la pistola nella schiena di due magistrati e due giornalisti e li costringe a seguirlo - A questo punto i cecchini aprono il fuoco e fulminano il complice - Il rapinatore che ha catturato gli ultimi ostaggi ha un attimo d'esitazione e viene disarmato da un magistrato.
Il passo carraio del carcere di S. Domenico si spalanca e appaiono quattro detenuti: sono impacciati, camminano con difficoltà. Trasportano, in un lenzuolo arrossato dal sangue, il corpo di Renato Mistrone, fulminato dai proiettili dei cecchini. Sono le 16 in punto. Abbandonano il compagno sull'acciottolato. I dodici ostaggi sono salvi. L'altro rivoltoso. Severino Turrini, è stato disarmato e catturato.
Da piazza della Cisterna, nella prospettiva di via del Castello, immersa in un silenzio innaturale, la scena ha dell'irreale; ma sono 24 ore che la rivolta solitaria e irrazionale dei due detenuti di S. Gimignano va avanti e questa è la conclusione, con un epilogo di 17 interminabili minuti. E' pesante da scrivere: un morto e la folla che applaude i tiratori scelti, ma la tensione è al massimo e la freddezza dì molti, d'improvviso s'è rotta: le autorità, soddisfatte, commentano: “Soltanto un cadavere, poteva andare peggio”.
Sono le 15,43 quando quattro colpi di altrettanti Heckle end Roch, con cannocchiale di precisione, rompono il silenzio in via S. Domenico, tra una pioggia di cristalli infranti. A sparare sono due coppie di tiratori della polizia e dei carabinieri, appostati dall'alba di stamane in un appartamento del terzo piano dello stabile che fronteggia il cortile della casa di reclusione. Riusciamo a scorgere Renato Mistrone, che cade all'indietro. Sono ore che con altri detenuti occupa il vano dell'inferriata a mezzaluna del primo piano. Il davanzale sì arrossa di sangue: si fanno attorno al I ragazzo due compagni: “Assassini, assassini, bastardi, non sparate”, gridano con voci strozzate e allontanano dalla finestra il corpo ferito a morte.
Adesso c'è silenzio. Due minuti, di silenzio, assoluto e carico di paura, rotto, d'improvviso, da una deflagrazione sorda: “Questa volta hanno sparato nel carcere”, grida qualcuno e già, più netto, si avverte un secondo colpo di rivoltella. Dalle torri dell'antico carcere di S. Gimignano si leva in volo uno stormo disturbato e gracchiante di cornacchie. In basso, dinanzi al muraglione dell'ex convento, c'è un momento di grande tensione. “A sparare è stato Turrini”, dice un ufficiale dei carabinieri. Non è così: a sparare è stata soltanto la pistola di Turrini mentre il giudice di sorveglianza Margara e due agenti di custodia strappavano la rivoltella al detenuto sorpreso dall'incertezza. Con il pretore Ghini di Poggibonsi, lo testimoniano i colleghi Carabba di Paese Sera e Calamari della Rai. Sono gli ultimi ostaggi di Turrini e Mistrone, costretti, un attimo prima dell'epilogo, improvviso e inaspettato, ad entrare nel carcere assieme al giudice Margara ed al pretore Ghini. Erano all'interno del cortile quando Mistrone. sotto la minaccia della rivoltella, ha ordinato ai due magistrati di unirsi al gruppo degli otto ostaggi. Dal cancello, che è al pianterreno, vediamo Turrini che chiede al compagno che è al piano dì sopra: “E di giornalisti quanti ne vuoi?”. Tutti. ordina dall'alto Mistrone. Magistrati e colleghi lasciano il cortile e sono all'interno del carcere, nel vano del piccolo ingresso: hanno le mani alzate. Turrini impugna due rivoltelle: ha nella destra una Colt Governement 45 e nella sinistra una Beretta calibro 9. Quando i colpi dei cecchini partono il quintetto si è appena allontanato dall'ingresso. Il collega Carabba sente un colpo passargli accanto alla testa e vede il proiettile conficcarsi nel muro. Turrini non perde la calma. E' freddo, si limita a dire: “Se hanno colpito il mio compagno, uccido tutti e comincio da voi giornalisti”. Poi ha un sorriso sprezzante e si corregge: “Anzi, comincio con i magistrati e finisco con i giornalisti”. Quando capisce che Mistrone è stato colpito, resta indeciso: gli sono addosso il dottor Margara e gli agenti Castiglione e Andolfi, che sono nel gruppo degli ostaggi. E' catturato. L'aver saputo approfittare di quell'attimo d'indecisione del rivoltoso ha evitato una strage.
L'azione disperata e priva di motivazioni, nelle cui pieghe difficilmente si può intravedere una coscienza politica, s'è conclusa nel sangue. Renato Mistrone ha pagato con la vita, a 23 anni, il sogno impossibile di libertà; Saverio Turrini ha visto spegnersi la sua giornata da leone nel sangue dell'amico più giovane, ma nulla ha perso rispetto a ieri. Ha già sommato condanne che lo tratterranno in carcere ancora per 19 anni; in più è in attesa di giudizio per l'omicidio a Brescia di un agente di custodia. “Sono disposto a morire - diceva con amara spavalderia stamattina dall'inferriata - tanto fuori non ho nessuno che mi piange: ma che si pensi agli ostaggi: hanno mogli e bambini”. “Non hai nessuno?” gli domandava un giornalista. E lui: “Sì, mia madre, ma non ci vado d'accordo, per lei sono già morto, è vecchia, non mi capisce”. Renato Mistrone invece aveva suo padre, un uomo duro, di pietra. E' arrivato a S. Gimignano poco dopo la mezzanotte di ieri e subito è stato ammesso nella casa di reclusione per convincere il figlio a fermarsi. Non c'è riuscito: a respingerlo è stato proprio il Turrini, con due colpi di pistola esplosi per intimorirlo. Non ha avuto paura: è rimasto lì a dirgli: “Dai, ammazzami, ma Renato deve arrendersi”. Poi, scacciato dalle urla del figlio, s'è allontanato.
La Stampa 11 agosto 1975