E' stato accertato che soltanto tre detenuti ospiti dell'infermeria hanno preparato la fuga, gli altri si sono accodati. Hanno superato indisturbati cinque porte sbarrate. Gli agenti di custodia in servizio parlano delle responsabilità dell'autorità centrale: sono in 240; l'organico ne prevede quattrocentottantacinque.
Alle ore 13,30 di oggi si è scoperto che gli evasi dal carcere di Regina Coeli, nella clamorosa fuga di ieri sera, erano 13 e non 12 come rilevato in un primo momento. Ci sono volute quattro “conte”, fatte alla presenza del dottor Santacroce, il magistrato che conduce l'inchiesta giudiziaria, perché venisse fuori l'assenza del tredicesimo detenuto: Giampaolo Di Carlo, 21 anni, in attesa di essere processato per furto e ricettazione. E' successo quindi che i compagni del giovane - probabilmente rispondendo “presente” in sua vece - gli hanno assicurato oltre dodici ore di vantaggio sugli agenti di polizia e i carabinieri che da questa notte sono sguinzagliati per la città alla caccia degli evasi.
Le ricerche, fino a questo momento, non hanno dato esito positivo. Ma gli inquirenti non sono pessimisti. Essi ritengono che soltanto tre degli evasi avevano preparato la fuga; Maurizio Visca, Laudovino De Santis, coinvolto nella sparatoria dove morì l'agente Marchisella, Gianfranco Remus, che si trovavano ricoverati in infermeria e quindi godevano di una maggiore libertà di movimento, oltre che della mancanza di controlli a partire dalle ore 17, per cui avrebbero potuto raggiungere l'uscita superando indisturbati cinque porte sbarrate. Gli altri che erano reclusi in bracci diversi di sarebbero serviti della strada aperta dai primi cogliendo l'inattesa occasione. Quindi secondo i magistrati, non avrebbero avuto il tempo di predisporre la fuga e la latitanza; prima o poi, dovrebbero cadere nelle mani della giustizia.
Per tutto il giorno nel carcere si sono susseguiti gli interrogatori, di detenuti e di agenti di custodia. Sono state tre indagini: della direzione di “Regina Coeli” della procura della Repubblica, del ministero di Grazia e Giustizia che ha inviato sul posto due ispettori - i magistrati De Maio e Larussa - addetti alla direzione generale degli istituti di prevenzione e pena. Non trapelano indiscrezioni, sembra confermata, nelle grosse linee, la prima ricostruzione della fuga: tre detenuti passano dall'infermeria nell'ufficio colloqui, poi nell'androne dove avviene la consegna dei pacchi e infine arrivano all'uscio di via delle Mantellate: forzano con piedi di porco le porte di legno, svitano i bulloni di quelle di ferro; tagliano tre serrature e due lucchetti con un seghetto a nostro di fabbricazione tedesca; non incontrano sulla loro strada agenti di custodia e il gruppo s'ingrossa via via; la preparazione della fuga s'inizia - per i tre - dopo le 17, ma l'attuazione si colloca fra le 20,40 (quando è finita la “conta” nei vari bracci) e le 21,30 (quando un gruppo di agenti rientra in caserma dal cinematografo e, passando per via delle Mantellate, scopre casualmente la porta aperta.
Davanti all'evasione più massiccia che si sia mai verificata in un carcere italiano (poteva diventare un esodo di massa, visto che nessuno dall'interno se n'era accorto), le reazioni sono drastiche e spesso contraddittorie fra di loro. I funzionari del ministero interpellati si dicono “allibiti”. Gli agenti di custodia, chiamati a discolparsi per le loro presunte negligenze sul servizio, parlano di responsabilità dell'autorità centrale e del direttore del carcere: dicono che sono pochi, sfruttati, maltrattai e spesso percossi dai detenuti, che sono carenti sia i criteri dell'arruolamento sia l'addestramento all'attività che li attende, che la loro vita è diventata ancora più insostenibile dopo le “innovazioni libertarie” introdotte dal direttore, “attraverso le quali lui si aspettava di vivere in pace e di ottenere la collaborazione dei detenuti, ma a scapito della nostra tranquillità e creando nel carcere un clima di confusione”.
Il direttore, dottor Pagano, rivendica la relativa tranquillità di “Regina Coeli”, rispetto ad esempio a Rebibbia, e sottolinea le “miniriforme” introdotte nel carcere prima della nuova legge: apertura delle celle in alcuni bracci, colloqui coi familiari senza testimoni, colloqui telefonici. Soprattutto fa rilevare l'impossibilità di operare in senso non repressivo, con gli strumenti a sua disposizione.
Ecco alcune cifre indicative. I detenuti sono 1300: il carcere al massimo potrebbe sopportare una popolazione di 450 persone; dopo la recente rivolta di Rebibbia, sono stati trasferiti qui 600 uomini. L'edificio è una ex chiesa con annesso convento, del 1564. Gli agenti di custodia sono 240, mentre l'organico ne prevede 485. Ogni giorno, fra permessi, vacanze, malattie, ne mancano circa 50. Essi sono distribuiti in 4 turni. Fra di loro 20 sono addetti all'ufficio matricole (ogni giorno entrano o escono 150-200 detenuti), 6-7 prestano servizio nel salone dei colloqui, sei alle 3 portinerie. In conclusione, resta una quarantina di persone per volta a controllare la vita nei bracci.
“Parlare di responsabilità individuali - dice un assistente sociale - è sbrigativo e provocatorio. Come non bastano le piccole riforme isolate, per modificare un'intera struttura. Ed è pericolosa una libertà concessa ai detenuti, senza che questa abbia altri sbocchi, come il lavoro. Né si può considerare in maniera omogenea la popolazione carceraria, pensando che tutti siano pericolosi criminali o tutti poveri cristi. Neppure va enfatizzato il "problema Regina Coeli" (basta sfogliare una collezione di giornali per vedere come le stesse cose si ripetano, da sempre, in tutta Italia) o il singolo episodio che esplode più clamorosamente degli altri. Bisognerebbe che l'opinione pubblica si interessasse di questa realtà con attenzione e seriamente, non una volta ogni tanto, per conoscerne la violenza, le ingiustizie, le discriminazioni, le sopraffazioni che costituiscono la legge "interna" dei rapporti che qui si vivono quotidianamente. Ci sono detenuti che hanno accrediti mensili sul milione di lire. E' facile capire quale gioco, nei confronti degli altri, è loro concesso”.
Oggi pomeriggio si è costituito uno dei quattro evasi dal carcere di Regina Coeli il 4 novembre scorso, si chiama Franco Trinca. Presentandosi dai carabinieri, ha detto: “Mi costituisco per un caso di coscienza. Non voglio che un agente carcerario sia coinvolto in un fatto del quale, soltanto io, per quanto mi riguarda, sono responsabile”. Ieri si era costituito un altro detenuto dello stesso gruppo, Vittorino Di Ganci.
La Stampa, 12 novembre 1975