Mario Appignani è stato “all'inferno” quindici anni. E' tornato ed ha scritto un libro. Oggi ha vent'anni: il volto magro e scavato; gli occhi piccoli e penetranti. Parla bene, convinto e polemico, senza sfoghi. “Sono un dissociato - sorride - ma chi non lo è un po' nella vita?”. “L'inferno” da dove Appignani è resuscitato sono diciannove case di rieducazione attraverso le quali è passato miracolosamente indenne. Messo al mondo da una ragazza-madre non ricorda i primi sei anni della sua vita: “Sono stati tre elettrochoc - dice - che li hanno cancellati per sempre”.
Quando gli telefono per l'intervista accetta. “Ma non voglio - risponde - una recensione al mio libro. Voglio parlare di un problema che tutti preferiscono nascondere. Siamo così bravi a interessarci di fatti lontani, di criticare la politica estera del Presidente americano, ma i panni sporchi di casa nostra non sì toccano. Ecco, vorrei parlare a nome di tutti gli emarginati, di tutti i bambini che come me un giorno sono entrati in un brefotrofio e si sono ritrovati ragazzi in casa di rieducazione, sono poi andati avanti nella loro "carriera" di esclusi: carcere minorile, carcere, manicomio”.
Il libro di Mario Appignani si chiama: “Un ragazzo all'inferno”. E' uscito da pochi giorni edito da Roberto Napoleone. “Servirà a qualcosa quello che ho scritto? Non credo. Per questo oggi mi batto per cambiare le strutture; faccio parte di un collettivo per l'abolizione dei manicomi criminali; partecipo a tutti i dibattiti e a tutte le conferenze che ci sono, intervengo per accusare lo Stato dì crudeltà contro i suoi figli più derelitti che, senza colpa, vengono al mondo poveri e col marchio di non avere un padre”. - Mario, nel tuo viaggio all'“inferno” una volta sei finito anche a Grottaferrata, nel “lager” di Maria Diletta Pagliuca, perché? “Perché quando non si conta nulla un bambino è come un numero. Le amministrazioni provinciali ti sbattono dovunque anche dalle Pagliuca. Se torniamo indietro si può capire dov'è che le cose cominciano a non funzionare. Lo Stato non dà nulla ad una ragazza-madre ma spende 7-8000 lire al giorno per "mantenerti" strappandoti all'unico affetto che hai. Tu sei bollato come tua madre. E comincia il calvario. C'è chi reagisce istintivamente ai soprusi e chi non ce la fa. Questi ultimi non usciranno più e andando avanti negli anni passeranno dalla casa di rieducazione al carcere, come automi, col cervello che non pensa ma ubbidisce per terrore. Si nasce diversi per rimanere tali. Gli "altri" non ti vogliono guardare in faccia”. Così un ragazzo senza famiglia viene mollato dal brefotrofio per “limiti di età”: è in mezzo a una strada e finisce in casa di rieducazione. “Proprio quando il giovane sta passando la fase più delicata. Chiusi in camerata, le sbarre alle finestre, gli agenti di custodia. Ma perché tutto questo - si domanda Appignani - e perché gli agenti invece di un educatore che ti capisca, con cui tu possa parlare? E' terribile sapere che non si può uscire. Cresce la rabbia e la ribellione. Non si conosce altro che questo: ti abitui a un ruolo che ti hanno costruito e non ti meravigli più di nulla. Devi subire le prepotenze dei più forti: impari una legge che non è scritta sulla carta costituzionale. Non saprai mai che esistono i diritti civili”. Dalla casa di rieducazione al carcere minorile. “Per una sciocchezza, per aver dormito sotto un ponte, per non avere i documenti in regola. Ho conosciuto un ragazzo che uscito dal carcere andò a mangiare al ristorante e non pagò il conto. Dal momento che non riusciva a dare una spiegazione del fatto fu messo in manicomio. E in manicomio è facile entrare: basta un certificato di un medico generico per esaurimento nervoso. Se nessuno ti reclama resti dentro. E anche qui sbarre alle finestre, repressione, elettrochoc”. “C'è un ragazzo, al Santa Maria della Pietà - prosegue Appignani - che sta lì da 25 anni. Da quando è nato: si chiama Bruno Roccesi, è ricoverato al padiglione 32. Vorrebbe uscire ma non ha una casa o una famiglia. E' per gente come lui che ho scritto il libro e mi batto ogni giorno, raccolgo nuovi dati, cerco di salvare chi esce, li porto a casa, sono amici”.
Mario Appignani ha cinque processi sulla testa. “Aspetto - dice - da cinque anni. Li voglio questi processi: sono sciocchezze ma non posso aspettare perché se commetto un errore è finita: torno dentro e non uscirò più. Intanto nessuno mi dà lavoro perché ho il "marchio di fabbrica" delinquente, pazzo o alienato. Ho conosciuto ragazzi che sono arrivati al suicidio perché potevano uscire ma i familiari non li hanno voluti a casa”. - Allora per te non ci sono speranze? “Sono ottimista e credo che si può fare qualcosa. I socialisti mi hanno promesso un progetto di legge. Insisto a dire che si deve partire dall'origine. Diamo alle ragazze madri la possibilità di educare un figlio, di non invecchiare prima del tempo, di non essere costrette ai lavori più bassi, alle fatiche, alla disperazione di prostituirsi. Togliamo le sbarre alle finestre delle case di rieducazione, apriamo le porte di casa a questi ragazzi e non permettiamo che imparino a diventare veramente dei criminali”.
La Stampa 8 marzo 1975