Secondo una prima valutazione dei funzionari dell'amministrazione penitenziaria, nel carcere di Rebibbia sono rimasti “agibili”, in seguito ai danni compiuti durante le manifestazioni di protesta, circa 600 posti. Com'è noto, quando domenica è entrata in vigore la riforma, i detenuti hanno cominciato a chiedere l'applicazione di tutte le innovazioni previste e, 24 ore dopo, hanno dato inizio alla battaglia perché delusi da una serie di risposte negative.
Il dottor Restivo, direttore del carcere di Rebibbia, ha riferito di aver dato piena attuazione alle disposizioni ministeriali, con eccezione per alcune di ardua applicazione. Come quelle riguardanti le comunicazioni telefoniche. “E' impossibile consentire queste ultime - ha detto Restivo - sia per ragioni tecniche, in quanto si deve provvedere all'esecuzione degli impianti, sia perché i detenuti di Rebibbia in maggioranza sono in attesa di giudizio e deve essere il magistrato a dare l'autorizzazione. Per quanto riguarda l'origine della protesta, Restivo ha detto che i detenuti hanno chiesto in generale l'applicazione immediata della riforma ed in particolare che le porte delle celle restino aperte dalle 8 alle 16. “Nella legge entrata in vigore non si fa riferimento alla questione delle porte aperte - ha detto Restivo - ma io sono contrario, anzi contrarissimo, anche se so che in altri istituti la richiesta è stata accolta ed il ministero ha lasciato fare. Non posso consentire che i detenuti siano fuori dalle celle e gironzolino intorno agli agenti di custodia. Per questa mia convinzione ho sempre respinto, e l'ho fatto anche lunedì, la richiesta dei detenuti di restare con le porte aperte.
Io ho fiducia che lo Stato non debba essere messo in ginocchio: le celle non le apro, piuttosto mi dimetto”.
La questione delle celle aperte si protrae ormai da alcuni anni. Fra gli istituti dove praticamente le celle sono sempre aperte e i detenuti sono liberi di uscire per recarsi ai colloqui per dedicarsi alle attività lavorative e ricreative e per ragioni di compagnia, vi è quello romano di Regina Coeli.
La Stampa 28 agosto 1975