Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato: eliminare ergastolo ostativo è resa alla mafia
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MAFIA 41-BIS Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato: eliminare ergastolo ostativo è resa alla mafia 12/10/2019 

Sentenza Cedu. Pericoloso sostenere che i condannati dei clan non sono liberi di collaborare con la giustizia. La sentenza sull'ergastolo ostativo della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Viola contro l'Italia, appare suscettibile di innescare significative ricadute nella politica criminale adottata dallo Stato italiano contro le mafie dopo la drammatica stagione degli anni 1992-1993.

In alcuni punti essenziali della motivazione, la Corte afferma infatti principi in grado di destabilizzare delicati meccanismi sui quali si è sin qui imperniata l'efficacia della risposta giudiziaria. Si afferma infatti che la legislazione italiana viola l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in quanto i detenuti condannati all'ergastolo ostativo per omicidi di mafia non sono liberi di esercitare la scelta di collaborare con la magistratura così usufruendo, al pari di altri ergastolani, dei benefici penitenziari tra i quali i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale.

Collaborando esporrebbero infatti se stessi e i propri familiari al rischio di gravi rappresaglie. Essi si troverebbero dunque dinanzi a una alternativa drammatica: collaborare rischiando la vita o rinunciare ai benefici di legge. Poiché la scelta del primo polo di tale alternativa equivale a una richiesta inesigibile da parte dello Stato, deve essere data a tali detenuti una terza via, consistente in una dissociazione senza collaborazione.

In ordine al rischio insito nella collaborazione con i magistrati, la Corte dopo avere premesso che il ricorrente aveva deciso di non collaborare per non dovere subire reazioni violente da parte dei suoi ex associati, ha osservato: "Su questo aspetto è opportuno ricordare le dichiarazioni della terza parte "L'altro Diritto Onlus" relative alla sua attività di osservazione diretta di detenuti condannati all'ergastolo previsto dall'articolo 4 bis.

Secondo questo terzo interveniente, il motivo principale del rifiuto di collaborare con la giustizia consisterebbe nel timore per i detenuti condannati per reati di tipo mafioso di mettere in pericolo la loro vita o quella dei loro familiari. La Corte ne deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata a una scelta libera e volontaria". Più avanti la Corte nel ritenere che la collaborazione con le autorità non si può considerare come l'unica dimostrazione possibile della correzione del condannato, afferma che "non è escluso che la dissociazione dall'ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia".

In via esemplificativa la Corte constata "che il ricorrente ha dichiarato di non essere mai stato sottoposto a sanzioni disciplinari e di avere accumulato dalla sua condanna, in ragione della sua partecipazione al programma di reinserimento, circa cinque anni di liberazione anticipata". L'affermazione secondo cui gli ergastolani per omicidi di mafia non sarebbero liberi di scegliere di collaborare, così auto-precludendosi l'accesso ai benefici penitenziari, perché si esporrebbero a rischio di vita, equivale ad affermare che lo Stato italiano non si è dimostrato in grado di garantire l'incolumità dei collaboratori e dei loro familiari, circostanza questa nettamente smentita dalla realtà storica attestante come invece i sistemi di protezione adottati abbiano efficacemente assicurato l'incolumità di varie centinaia di collaboratori e dei loro familiari trasferendoli in località protetta, fornendo loro nuove identità e la possibilità di iniziare nuovi percorsi di vita.

Oltre che priva di fondamento storico fattuale, la motivazione addotta dalla Corte per giustificare e legittimare il diritto al silenzio dei mafiosi condannati all'ergastolo come stato di necessità indotto dalla perdurante prevalenza della forza di intimidazione dell'associazione mafiosa rispetto agli strumenti di protezione apprestati dallo Stato, veicola un messaggio fortemente negativo di sfiducia nella reale capacità delle istituzioni di ripristinare la forza della legge contro la sopraffazione della mafia.

Se il diritto al silenzio è giustificato per capi mafia e killer condannati all'ergastolo, in quanto, secondo la Corte, nell'Italia del 2019 la mafia sarebbe ancora più forte e temibile dello Stato, a maggior ragione dovrebbe giustificarsi il silenzio degli imprenditori che pagano il pizzo e di tutti coloro che soggiacciono alle intimidazioni della mafia, preferendo talora farsi incriminare per favoreggiamento piuttosto che rivelare ai magistrati il loro stato di vittime. Un avallo culturale alla rassegnazione fatalistica e lo svilimento dello straordinario sforzo collettivo profuso in questo ultimo quarto di secolo per alimentare nella società civile la fiducia nelle istituzioni debellando la legge dell'omertà.

Ancora più paradossale appare tale motivazione se si considera che il ricorrente Viola, capomafia della 'ndrangheta, è stato condannato all'ergastolo proprio grazie alla collaborazione con la giustizia di due suoi sodali. La Corte afferma inoltre che il sistema normativo vigente viola l'art. 3 della Convenzione sotto un ulteriore profilo: "Il sistema nazionale è in contrasto con il diritto di autodeterminazione (...)

Il detenuto non è in grado di determinare la sua esistenza in carcere e di avere una influenza sull'esecuzione della sua pena, in quanto il giudice non tiene conto del suo comportamento e delle sue azioni in assenza di collaborazione". In altri termini il mancato riconoscimento del diritto del condannato all'ergastolo per delitti di mafia di scegliere liberamente se auto-emendarsi collaborando con la giustizia (così come richiesto dalla legge, adoperandosi per evitare che l'attività delittuosa dell'associazione mafiosa sia portata a conseguenze ulteriori), oppure di auto-emendarsi in altri modi, ad esempio, limitandosi a dissociarsi, comprometterebbe il diritto di autodeterminazione, ledendo la dignità dell'individuo.

Il giudice Wojtyczek nel motivare la propria opinione dissenziente rispetto agli altri componenti della Corte ha definito testualmente "sconcertante" tale argomento, osservando che in materia di politica penale agli Stati è riconosciuto un margine di apprezzamento nel bilanciamento tra esigenze di tutela della collettività e diritti individuali.

Ha ricordato infatti che oltre agli obblighi previsti dall'art 3, l'articolo 2 della Convenzione impone alle parti contraenti l'obbligo di adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione e che "l'obbligo dello Stato a questo riguardo implica il dovere primario di garantire il diritto alla vita istituendo un quadro giuridico e amministrativo atto a scoraggiare la commissione di reati contro la persona e concepito per prevenire, reprimere e punire le violazioni (...) Questo obbligo riguarda in particolare la protezione contro la criminalità organizzata (...)

La legislazione italiana non priva le persone condannate all'ergastolo per i crimini più pericolosi per la società di sperare di ottenere un giorno la libertà. Essa prevede la possibilità di ottenere una liberazione condizionale ma subordina quest'ultima alla condizione di una collaborazione con la giustizia". La Corte - secondo il giudice dissenziente - ha travalicato i limiti della propria competenza in quanto non si è limitata ad un controllo di razionalità e di proporzionalità della scelta di bilanciamento operata dal legislatore italiano, ma si è sostituita ad esso con una scelta politica alternativa e sbilanciata che indica come prevalente rispetto alle esigenze di tutela della collettività il diritto soggettivo del detenuto a scegliere i modi e i percorsi della propria risocializzazione, rifiutandosi di aderire a quelli previsti dalla legge.

Senza dubbio né il giudice Wojtyczek né gli altri componenti della Corte ricordano che tale soluzione corrisponde esattamente a quella fortemente auspicata e promossa da autorevoli esponenti del Gotha di Cosa Nostra dalla fine degli anni Novanta sino al 2005. In quegli anni Pietro Aglieri, capo mandamento condannato per le stragi, si fece capofila di una proposta che trovava la piena adesione di molti boss importanti tra i quali Salvatore Biondino, l'uomo di fiducia di Salvatore Riina arrestato insieme al suo capo, Benedetto Santapaola, boss di Catania, Giuseppe Madonia capo mafia di Caltanissetta, Giuseppe Farinella capo delle Madonie.

I boss chiedevano appunto che venisse modificata la normativa sull'ergastolo ostativo in modo da assicurare l'accesso ai benefici penitenziari ai condannati all'ergastolo per delitti di mafia anche in assenza di collaborazione, stabilendo che fosse sufficiente una "dissociazione", cioè il ripudio della scelta di adesione all'organizzazione e la scelta di altri percorsi individuali di risocializzazione.

Dopo alterne e scabrose vicende, tra le quali la repentina rimozione del capo dell'Ispettorato del Dap Alfonso Sabella che aveva bloccato la richiesta di Salvatore Biondino di essere autorizzato a fare lo "scopi - no" al fine di muoversi liberamente dentro il carcere e mettere meglio a punto con gli altri capi detenuti i termini della "trattativa Aglieri", la fattibilità della soluzione proposta fu abbandonata in sede governativa aderendo alle argomentazioni contrarie fatte valere dai magistrati più impegnati sul fronte antimafia, i quali, sulla base dell'esperienza acquisita e della profonda conoscenza del mondo mafioso, avevano fatto rilevare che un eventuale cedimento alle richieste dei boss sarebbe stato tutto a favore della mafia, senza che lo Stato ne ricevesse una contropartita adeguata.

La possibilità per i mafiosi di essere ammessi ai benefici penitenziari dei permessi premi, della semilibertà e della liberazione condizionale in assenza di collaborazione, avrebbe infatti demotivato ogni spinta a collaborare, consentendo così alla mafia di conseguire l'obiettivo di privare lo Stato di uno strumento rivelatosi prezioso per destabilizzare gli equilibri interni delle organizzazioni criminali disarticolandone le strutture.

L'abolizione di fatto della pena dell'ergastolo per gli omicidi di mafia, avrebbe inoltre fatto venir meno l'unico vero deterrente temuto dai mafiosi i quali sono da sempre rassegnati a dovere scontare anche lunghi anni di carcere come prezzo della propria carriera criminale, ma temono fortemente invece l'ergastolo che li priva per sempre del potere acquisito e della possibilità di godere delle ricchezze accumulate. Nella mia lunga esperienza sul campo ho potuto constatare l'immediato reinserimento nell'organizzazione di mafiosi che erano usciti dal carcere dopo venti o trenta anni di detenzione.

Infine va considerato che i mafiosi doc sono sempre stati detenuti modello, formalmente rispettosi delle regole interne del carcere e quindi già usufruiscono della liberazione anticipata cioè di uno sconto automatico di 90 giorni di pena per ogni anno di detenzione. L'accumulo progressivo di tre mesi di sconto per ogni anno di pena, sommandosi nel tempo accorcia di molto il periodo previsto per l'accesso ai benefici penitenziari. Dieci anni si riducono a otto anni e sei mesi, venti anni si riducono a quindici.

Molti in carcere si sono dedicati agli studi e ad alcuni si sono pure laureati. Se a ciò si aggiunge una dichiarazione formale di dissociazione, di ripudio del passato, si comprende come possa divenire problematico per il magistrato di sorveglianza motivare il diniego dei benefici penitenziari in assenza di concreti elementi (come, ad esempio, le intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano) che provino come la risocializzazione del detenuto - dimostrata nei modi esemplificati - sia il frutto di una abile strategia di dissimulazione e non il sincero punto di arrivo di un ripensamento critico delle proprie scelte di vita.

Scoprirlo soltanto dopo potrebbe comportare il rischio del sacrificio di vite umane e della perdita di credibilità dello Stato nel fronteggiare il crimine mafioso, proprio il rischio che il legislatore aveva ritenuto di potere evitare subordinando l'accesso ai benefici alla collaborazione, mediante un equilibrato bilanciamento degli interessi della collettività e dei diritti del singolo.

 

di Roberto Scarpinato Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo - Il Fatto Quotidiano


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