Un altro mafioso torna in carcere dopo aver ottenuto i domiciliari durante l’emergenza coronavirus. Si tratta di Pietro Pollichino, esponente di Cosa nostra nel mandamento di Corleone. Era detenuto in regime di Alta sicurezza nel carcere di Melfi. Condannato in via definitiva a sei anni e otto mesi per associazione a delinquere di stampa mafioso, Pollichino oggi ha 78 anni e deve scontare ancora oltre un anno di reclusione. Il suo fine pena è fissato nel luglio del 2021, ma il 28 aprile scorso aveva ottenuto dal tribunale di Sorveglianza di Potenza nove mesi di domiciliari nella sua casa di Corleone. Gli arresti casalinghi, però, sono durati meno di 30 giorni: il mafioso è stato condotto nel carcere Pagliarelli di Palermo, in attesa di essere trasferito a Napoli.
L’iniziativa del Dap – Pollichino torna in cella in applicazione del decreto antimafia approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 9 maggio. Il nome del corleonese era contenuto nella lista dei mafiosi da riportare in carcere stilata dal nuovo vicecapo del Dap Roberto Tartaglia. L’iniziativa è stata intrapresa dal Dipartimento amministrazione penitenziaria dopo il decreto del 10 maggio scorso del guardasigilli Alfonso Bonafede, che ha attribuito al Dap il potere di iniziativa nell’indicare ai magistrati di sorveglianza soluzioni sanitarie idonee per consentire il rientro dei boss scarcerati per motivi di salute negli istituti di pena.
Il nome nella lista Tartaglia – L’istanza di scarcerazione era stata accolta per l’emergenza coronavirus in quanto un rischio di contagio era – secondo i giudici – incompatibile con la detenzione carceraria. Due relazioni mediche avevano attestato l’incompatibilità con la detenzione in carcere per patologie pregresse di tipo cardiaco. Il detenuto, scriveva il tribunale di Sorveglianza un mese fa, non si è ravveduto né ha collaborato con la giustizia. Quindi il giudice ritiene “indubbio lo spessore criminale” e pertanto non può essere rimesso in libertà. Ma, per lo stato di salute, l’attuale situazione epidemiologica “rende difficoltoso fare ricorso ai trattamenti sanitari presso i presidi territoriali esterni”. E quindi, secondo i giudici, anche se è pericoloso Pollichino poteva tornare a casa. Il tribunale aveva rigettato la richiesta di differimento della pena ed aveva invece concesso la detenzione domiciliare di nove mesi, con permesso di uscita per due ore al mattino per esigenze di salute e divieto di usare i telefoni cellulari. Una decisione cancellata oggi grazie al combinato disposto rappresentato dal lavoro svolto dal nuovo vicecapo del Dap Tartaglia e dal decreto approvato dal governo.
Chi è Pollichino: le minacce ad Alfano e il caso Kennedy – Pollichino è stato arrestato nel 2015 insieme a Rosario Lo Bue, Pietro Masaracchia e Salvatore Pellitteri: per gli investigatori i quattro erano al vertice della famiglia di Corleone, il clan di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta i quattro minacciavano l’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano. “Questo Angelino Alfano – dicevano – è un porco con le persone, chi minchia glielo ha portato allora qua con i voti di tutti, degli amici. È andato a finire là, insieme a Berlusconi ed ora si sono dimenticati di tutti”. I mafiosi auspicavano un piano di morte per l’allora leader del Nuovo Centrodestra: “Se siamo, se c’è l’accordo… lo fottiamo a questo…lo fottiamo, gli cafuddiamo (diamo ndr) una botta in testa”. Curiosamente, i boss paragonavano l’allora responsabile del Viminale a John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti assassinato il 22 novembre del 1963 a Dallas. “Kennedy era allora il presidente degli Stati Uniti, perché a Kennedy chi se lo è masticato? Noi ce lo siamo masticato, noialtri là in America! Ed ha fatto, ha fatto le stesse cose che ha fatto Angelino Alfano che prima è salito con i voti di Cosa nostra americana e poi gli ha voltato le spalle”. Insomma: a sentire i mafiosi era stata Cosa nostra a eliminare Jfk.
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