La qualifica di mafioso, hanno detto i giudici, rivela una spiccata potenzialità criminale, ma non può giustificare una condanna - La Corte riconosce che esiste l'omertà, tuttavia dichiara che senza prove non è in grado di condannare - Il principale teste d'accusa ritenuto inattendibile perché sospetto di «intesa con la polizia» - Il P.G., che ha presentato appello contro la sentenza, ritiene che le conclusioni dei giudici siano « quanto meno paradossali »
La qualifica di mafioso rivela, senza dubbio, « una spiccata potenzialità criminale »; ma non può giustificare da sola una condanna. Sette mesi or sono, i giudici della Corte d'Assise hanno assolto Luciano Liggio (o meglio Leggio perché questa è l'esatta indicazione anagrafica) dall'accusa di avere compiuto o ordinato di compiere 9 omicidi e di avere organizzato un'associazione per delinquere; ieri, hanno spiegato che l'applicazione pratica di questo principio teorico li ha indotti a prendere una decisione, peraltro clamorosa e sorprendente, della quale hanno beneficiato altri 54 imputati.
Tutti o quasi tutti possono essere anche convinti che Luciano Liggio, oltre che un mafioso, sia un violento, un assassino: taluni fra i suoi conoscenti di Corleone, dove è nato, i carabinieri e la polizia che gli hanno dato la caccia per sedici anni prima di arrestarlo, i magistrati dai quali è stato rinviato a giudizio. Ma questo convincimento, diciamo cosi, collettivo non ha avuto alcuna influenza sui giudici: l'accusa — hanno osservato nella loro sentenza — avrebbe dovuto fornire le prove e non limitarsi, invece, ad indicare soltanto « le voci correnti nella opinione pubblica» o «un testimone risultato, voi, inattendibile ». « Compito della Corte — hanno aggiunto i giudici per chiarire meglio il loro pensiero — non può essere che quello di punire o assolvere gli imputati a seconda che i fatti delittuosi loro contestati risultino o no provati nel rispetto costante dei limiti imposti dalla legge all'esercizio del dovere-potere di giudicare. Una travalicazione di tali limiti — hanno concluso per difendersi dall'accusa di essere stati forse eccessivamente generosi nei confronti di un fenomeno cosi grave come quello mafioso — potrebbe talvolta contribuire in apparenza alla risoluzione di un problema sociale: ma ne creerebbe un altro di ben più vaste proporzioni perché priverebbe i cittadini della più elementare e più importante garanzia costituzionale che prescrive l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge ».
E' questa, pur sempre, una argomentazione teorica: ma in pratica che cosa è accaduto per indurre i giudici a non dare alcun credito agli elementi forniti dall'accusa che per 59 imputati (tre infatti, sono morti durante 11 processo) aveva chiesto 140 condanne di cui 3 all'ergastolo? Nel gennaio 1966 sembrò aprirsi una breccia nel muro di silenzio che sino allora aveva circondato gli omicidi (nove) avvenuti a Corleone fra il 1955 e il 1962. A parlare fu un detenuto, Luciano Raia, il quale rivelò di aver ascoltato nel carcere di Palermo le conversazioni fra due mafiosi sui delitti compiuti dalla cosca agli ordini di Luciano Liggio per eliminare quella capeggiata dal medico Michele Navarra, direttore dell'ospedale. Sembrava ormai tutto chiaro o quasi: attraverso quella breccia, la polizia riuscì a convincere altri di Corleone ad essere altrettanto eloquenti o comunque meno « riservati » impegnandosi, però, a non fare i nomi dei suoi confidenti.
« La polizia ha sottolineato che al fenomeno della mafia — è stato osservato dalla Corte d'Assise nella sentenza — si accompagna sistematicamente quello della omertà. E' stato messo in evidenza che un muro di impenetrabile silenzio, fatto di paure e di connivenze, si oppone alle indagini. E la Corte ha avuto modo di constatare direttamente la estrema cautela con la quale quasi tutti i testi chiamati a deporre abbiano reso le proprie dichiarazioni con la costante preoccupazione di non riferire fatti che in qualche modo potessero essere considerati compromettenti per gli imputati sino al punto da negare anche circostanze prive di qualsiasi rilievo processuale».
« Tuttavia la Corte — hanno posto in rilievo i giudici pur rendendosi conto delle difficoltà alle quali va incontro la polizia durante le indagini — non può che tenere fermo il principio di non colmare le lacune provocate da questa omertà travalicando i limiti fissati dall'ordinamento processuale che vieta ai testi di deporre sulle voci correnti nel pubblico e che impedisce al giudice di obbligare la polizia a rivelare i nomi dei suoi confidenti ed informatori ». Impostato dai giudici il problema in questi termini che sono, in sostanza, comuni a tutti i processi per delitti mafiosi, Luciano Liggio si è trovato automaticamente al riparo da qualsiasi pericolo.
Al caso di Luciano Raia, considerato « il cardine dell'accusa », la Corte ha dedicato un'attenzione particolare prima di giungere ad una conclusione cosi negativa. « Risulta — hanno osservato i giudici — che è stato più volte ricoverato in manicomio; che è un omosessuale e che si è indotto a parlare soltanto dopo avere avuto assicurazione dal vice questore Angelo Mangano che sarebbe stato aiutato sia per ottenere un'eventuale libertà provvisoria (era accusato di estorsione e di associazione per delinquere) sia per avere gli assegni familiari per i figli dei detenuti». - Il meccanismo logico messo in movimento dai giudici ha portato a conclusioni che all'accusa e quindi al procuratore generale, che ha presentato appello contro la sentenza sono apparse « quanto meno paradossali ». La Corte, cioè, ha escluso categoricamente che Luciano Liggio abbia compiuto o tanto meno organizzato gli omicidi; che a Corleone vi sia mai stata una lotta feroce fra cosche mafiose e che, comunque, si possa affermare con sicurezza che quella capeggiata da Luciano Liggio abbia avuto lo scopo di organizzare e realizzare dei delitti. Per i giudici di Bari, infatti, mafioso non significa appartenere automaticamente ad un'associazione per delinquere.
Una circostanza, infine, era sembrata molto rilevante per l'accusa: come Liggio aveva potuto affrontare economicamente sedici lunghi anni di latitanza se non attraverso quell'attività mafiosa che tutti gli hanno attribuito. Il boss di Corleone ha sempre sostenuto di avere pochissime esigenze e la Corte di Assise ha ritenuto attendibile questa sua giustificazione sottolineando che « le spese cui l'imputato dovette andare incontro durante il periodo di latitanza non possono considerarsi tanto rilevanti da indurre inevitabilmente ed oggettivamente alla conclusione che il Liggio le abbia potute affrontare soltanto con i proventi di imprese peraltro genericamente indicate e niente affatto provate ». Luciano Liggio, almeno dal punto di vista finanziario, sembra essere uomo dalle grandi risorse. Per quanto abbia sempre affermato di essere ormai senza mezzi, lasciato il carcere la sera in cui è stato assolto (10 giugno 1969), fu ricoverato all'ospedale civile di Taranto per « infezione alle vie urinarie con insufficienza renale in soggetto nefrectomizzato». Da due mesi, nel più assoluto segreto, si è trasferito a Roma in una clinica: chi paga le spese?
La Stampa 4 gennaio 1970