Lo hanno pestato con ferocia. Davanti a quella casa che avrebbe dovuto essere segreta per tutti. Ma non per loro. A mani nude: segnale chiaro, per il codice delle cosche, che avrebbero potuto fare molto di peggio. Che potranno farlo ancora. A lui e agli altri che hanno deciso di vuotare il sacco davanti alle Procure sugli affari della ’ndrangheta in Lombardia e in Emilia.
La posta in gioco è altissima. I pentiti sono il primo obiettivo. Senza le loro testimonianze non si sarebbe arrivati alla sentenza per Nicolino Grande Aracri al processo Pesci, condannato per la prima volta al Nord per associazione mafiosa. Un giudizio che ha segnato un punto di non ritorno. Ora per i criminali stoppare ogni passo in avanti è l’imperativo categorico. Gli inquirenti ne sono convinti: erano picchiatori esperti gli uomini che il 18 aprile scorso hanno massacrato con pugni e calci Paolo Signifredi, il pentito che con le sue rivelazioni ha tolto il velo da molti degli affari della cosca di Manuzza al nord. Era in una casa che gli era stata assegnata dallo Stato in una località protetta.
Era l’uomo dei conti di Nicolino Grande Aracri, che al processo Pesci perse la testa e gli diede del bugiardo.
L’ennesima casa, cambiata peraltro da poco tempo per precauzione. Se sulle modalità dell’agguato, messo a segno mentre Signifredi, inspiegabilmente senza scorta, da solo, rientrava sembra dopo una visita medica, vige il massimo riserbo, il messaggio è chiaro: per lui e per molti altri. Le bocche devono restare chiuse. Signifredi è stato lasciato in vita ma con un m essaggio inequivocabile: «Rettifica quello che hai detto altrimenti sono guai».
La notizia dell’agguato in cui il collaboratore di giustizia ha riportato la frattura del naso, della mandibola e delle costole, rimanendo incosciente per 24 ore, è emersa pubblicamente lunedì mattina durante un’udienza del processo su una maxifrode dell’acciaio da 130 milioni di euro, quando il suo avvocato ha presentato il certificato medico per giustificare l’assenza, «ma era già nota a chi doveva sapere».
Non ha dubbi uno degli investigatori che ha avuto a che fare con Signifredi, secondo cui nelle carceri la notizia del pestaggio ha cominciato a circolare immediatamente. Obiettivo raggiunto: avvertimento chiaro ai detenuti a cui venisse voglia di cominciare a cantare. «E le voci sono arrivate anche agli altri pentiti, senza dubbio. A quelli che, come Signifredi, hanno già vuotato il sacco davanti ai magistrati: Antonio Valerio e Salvatore Muto, tanto per fare due nomi. L’inchiesta sull’agguato è sostanzialmente già aperta d’ufficio, ed è di competenza della procura della località segreta, ma con invio degli atti su richiesta anche delle procure dove Signifredi è imputato, come appunto Brescia per l’inchiesta Pesci sugli affari del clan Grande Aracri nel Mantovano.
Certo è che le procure antimafia, con il coordinamento di quella nazionale, stanno cercando gli autori del pestaggio e soprattutto i mandanti.
«È molto grave si sia verificato un episodio di questo tipo, lo Stato ha il dovere di garantire la sicurezza di chi collabora. Bisognerà comprendere come ciò sia avvenuto» ha detto martedì Federico De Raho, procuratore nazionale antimafia .
Intanto Signifredi ha fatto sapere che alla prossima udienza farà dichiarazioni spontanee, in videoconferenza.
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