Ottocento evasioni negli ultimi tre anni
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STORIA Ottocento evasioni negli ultimi tre anni 28/12/1975 

Ottocento evasioni, poco più poco meno, sono state contate negli ultimi tre anni, comprese quelle natalizie di Torino e di Fossano. La cifra non tiene, invece, conto delle evasioni che sono rimaste allo stadio di tentativo per desistenza spontanea o per tempestiva intercettazione. Molte di queste rimangono sconosciute, anche perché quasi mai fanno notizia. Se fosse possibile sommarle tutte assieme, ne risulterebbe un numero ancor più altisonante, sintomo eloquente del malessere che da sempre caratterizza la vita carceraria.

Si tratta di un dato da meditare con la massima attenzione. Il corollario più immediato riguarda da vicino quanti si sono formati la convinzione che nelle nostre carceri, tra televisione e giornali a disposizione, si stia persin troppo bene. Ed è un corollario che si risolve in una smentita. Eccezion fatta per chi abbia alle spalle una potente organizzazione di tipo mafioso o simili, soltanto dei disperati possono essere attratti dall'idea di evadere. Ammesso che l'impresa, non priva di pericoli anche gravi, riesca, il detenuto che fugge si autocondanna alla latitanza senza fine, braccato di continuo, sempre costretto a mimetizzarsi, rischiando la fame e, ad ogni minuto, l'arresto. Nel qual caso nuove sanzioni lo attenderanno. Proprio quest'ultimo aspetto del problema consente di rilevare come, accanto alla disperazione, giochi un grosso ruolo l'ignoranza.

Se tutti i detenuti conoscessero esattamente le conseguenze giuridiche ricollegate all'evasione, i progetti di fuga diminuirebbero sensibilmente. Il codice penale commina la reclusione che può arrivare fino ad un massimo di cinque anni allorché il fatto presenti il connotato della violenza o della minaccia commessa con armi o da più persone riunite. A sua volta, il regolamento penitenziario, che opera sul piano disciplinare, impone, da un lato, la devoluzione del peculio del detenuto alla cassa delle ammende e, dall'altro, la cella di isolamento con pancaccio e trattamento a pane ed acqua (ciò persino nel caso di semplice tentativo d'evasione). Altra conseguenza automatica è l'immediato trasferimento in un istituto penitenziario dislocato lontano, magari nelle isole.

Ma, a ben guardare, gli effetti più pregiudizievoli sono quelli che emergeranno solamente in un secondo tempo, quando, cioè, il detenuto, espiata una parte della pena, potrebbe fruire di uno dei non pochi benefici oggi previsti come autentico premio di buon comportamento: dalla liberazione condizionale alla grazia, dalla “nuova” liberazione anticipata al “nuovo” regime di semilibertà. Chi è evaso o ha tentato di evadere compromette, talora irrimediabilmente, l'aspirazione ad un epilogo anticipato della condanna. Le suggestioni provenienti dall'esterno, sotto forma di inviti dissennati o di promesse avventate, costituiscono il terzo fattore che spinge a cercare la via di una fittizia, illusoria libertà. Ed è forse il fattore più pericoloso, perché meno facilmente esorcizzabile, data la maggior facilità di contatti epistolari o telefonici e la maggior libertà nei colloqui, senza contare la carica aggressiva proveniente da certi ambienti delinquenziali alla ricerca costante di provocazioni o di imprese banditesche.

Per fronteggiare in qualche modo l'incidenza di queste spinte esterne sarebbe indispensabile un potenziamento della vigilanza interna, così da renderla sicura ed efficiente: sicura nel senso di troncare eventuali connivenze o possibili distrazioni, efficiente nel senso di eliminare ogni vuoto di tempo e di spazio. Il discorso si fa, a questo punto, particolarmente delicato e complesso, involgendo l'intero settore organizzativo degli agenti di custodia, bisognoso di una completa rivalutazione nella scacchiera dei dipendenti statali.

Mal retribuiti, insufficienti di numero, superficialmente preparati, sottoposti ad orari impossibili, esposti a pericoli continui, questi umili servitori dello Stato sono dei sacrificati e spesso anche dei frustrati. Facendoli lavorare in simili condizioni, è impossibile pretendere da loro quell'apporto di serenità e di dignità che sarebbe indispensabile per dissipare l'atmosfera di malessere che tiene le carceri in uno stato di perenne tensione, nocivo ai detenuti e, più ancora alla collettività. In un contesto sociale valido, il carcere deve porre riparo al male che è stato commesso, non provocare nuovi miasmi. Tra questi l'evasione è, appunto, uno dei più gravi, anche per l'allarme che suscita, per il discredito che provoca e per le punizioni che possono ricadere sugli agenti incolpevoli o sui vicini di cella rimasti quieti.

La Stampa 28 dicembre 1975 di Giovanni Conso


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