Sulla morte in cella d'isolamento, nel carcere di Rebibbia, dell'invalido civile Vinicio Pomponi, 44 anni, baraccaio di Ostia, muto fin dal 1972 per resezione delle corde vocali imposta da un tumore maligno, sono state aperte le solite inchieste: dell'autorità giudiziaria e della amministrazione. Chiediamo che non si concludano, come tutte le inchieste scomode nel nostro Paese, con un'assoluzione generale, o con la denuncia dei soliti ignoti, o con il trasferimento punitivo di chi occupa l'ultimo posto nella scala gerarchica, ma con una limpida sentenza. Chi ha sbagliato, paghi; e se non ci sono prove sufficienti per una condanna penale, si conoscano almeno i nomi dei protagonisti dello scandalo. Bisogna stracciare la coltre dell'anonimato che troppo spesso nasconde i colpevoli investiti di funzioni pubbliche. Non pretendiamo di fare noi il processo ai responsabili della morte atroce di Vinicio Pomponi, ma non accettiamo che s'invochino la fatalità, le lentezze procedurali, gli equivoci involontari.
I fatti essenziali sono accertati ai di là d'ogni dubbio. Vinicio Pomponi. un infelice ma fors'anche un tipo scomodo, un uomo inasprito, venne arrestato il 30 maggio su denuncia d'un barista da cui l'invalido esigeva bevande senza pagarle. “Estorsione”: e la legge preelettorale di Fanfani sull'ordine pubblico prescrive, senza misurare il rigore sull'entità della minaccia o del danno, il mandalo di cattura obbligatorio. Processo per direttissima il 23 giugno: il pubblico ministero, conoscendo la malattia e la miseria dell'imputalo, chiede il minimo della pena e la libertà provvisoria; i giudici hanno la bella pensata di ordinare la perizia psichiatrica. Distrutto dal cancro e sospettato di anormalità psichica, il Pomponi non soltanto è tenuto in carcere, ma trasferito da Regina Coeli (dove lo si poteva curare in un ottimo centro clinico) a Rebibbia; e qui non solo non viene ricoverato in infermeria, ma è chiuso in cella di isolamento. Forse smaniava; certo rimane per un mese intero nella più severa delle reclusioni, senza cure, fino alla morte improvvisa e solitaria.
E' una storia crudele, con protagonisti ben individuabili e colpevoli almeno d'insipienza, di stolidità, di applicazione meccanica e disumana di leggi o regolamenti, di violazione dei doveri d'ufficio. La società ha il diritto di sapere perché il morto di Rebibbia fu trasferito da Regina Coeli. perché fu chiuso in cella d'isolamento, perché non fu accollo in ospedale né curato. Ha il diritto di sapere come si comportarono i medici, il direttore, gli agenti di custodia del carcere; e se informarono l'autorità giudiziaria sulle condizioni d'un detenuto, che dalla cartella clinica risultava malato di tumore maligno. Ha pure il diritto di chiedersi per quale ragionamento i giudici di Roma, anziché accogliere la sensata, umana richiesta del pubblico ministero, decisero di tenere in carcere, in attesa d'una lenta e inutile perizia psichiatrica, un uomo condannato dal cancro.
Il dramma di Vinicio Pomponi non è l'unico, e neppure il più fosco, tra gli episodi scandalosi della recente cronaca penitenziaria: un paio di suicidi nello stesso carcere di Rebibbia, il rogo della reclusa nella prigione-manicomio di Pozzuoli suscitano domande non meno inquietanti. Ma il “caso Pomponi”, esemplare delle carenze del sistema proprio per la sua fredda crudeltà burocratica, e anche la conseguenza di tante inchieste insabbiate, dell'impunità assicurata (per pigrizia, spirito di casta, paura) ai responsabili di altre tragedie, della certezza che nessuno paga per colpe o errori.
Non ci saranno condanne per la morte di Franco Serantini nel carcere di Pisa, non ci saranno processi per la bruciata viva di Pozzuoli: ci saranno sanzioni per la morte in cella d'isolamento di quest'ultima vittima? All'on. Reale, ministro che crede nella Giustizia, chiediamo d'impegnare lutti i suoi poteri e tulio il suo prestigio perché le inchieste conducano all'accertamento della verità ed a misure contro i responsabili. E' necessario per tre motivi: per debito d'equità, perché i cittadini possano riacquistare un minimo di fiducia nella macchina pubblica, e anche perché il voto recentissimo della riforma carceraria non si traduca ancora una volta in un inganno. La nuova legge, con tutti i suoi limiti, rappresenta un notevole progresso civile paragonata al regime penitenziario d'impronta fascista; ma rimarrà un mucchio di promesse scritte sulla carta se le buone intenzioni non si tradurranno nei fatti: cioè in precisi regolamenti d'applicazione, in strutture tali da rispondere agl'impegni, in un controllo imparziale e severo sugli uomini che operano nel sistema carcerario.
Se altri scandali non fossero rimasti impuniti, l'invalido Pomponi, condannato dal cancro, sarebbe morto in altro modo. O sarebbe morto in libertà provvisoria, senza rappresentare una minaccia per la società, se i giudici romani non avessero preso la decisione sbagliata. Non pretendiamo di condannarli, non potendo mettere in dubbio né la loro buona fede né la correttezza formale del provvedimento; e sappiamo che si distruggerebbe l'indipendenza della giustizia, se i magistrali dovessero rispondere di errori compiuti senza violare né il codice né l'etica professionale. Ma ci chiediamo perché il Consiglio superiore della magistratura sia tanto cauto e indulgente di fronte ad altri casi, in cui i giudici appaiono almeno responsabili d'inerzia o di omissione dei doveri d'ufficio.
La Stampa 30 luglio 1975