Lo sgomento è senza limiti, ma occorre, per una volta, vincere l'ipocrisia dello sdegno retorico. Tutti sanno, e lo sanno soprattutto in Sicilia, che non è stato soltanto consumato un delitto più grave degli altri. Tutti sanno che la mafia e forte perché prudente e calcolatrice, perché non lancia sfide inutili e non corre pericoli non necessari. Le sue vendette hanno sempre un senso, devono servire a rinsaldare un potere tenebroso. E da un alto magistrato, che stava per lasciare Palermo, la mafia non avrebbe dovuto temere più niente, non avrebbe dovuto temere neppure, come nel caso del commissario Tandoj, fulminato sul lungomare di Agrigento alla vigilia della partenza per Roma, la rivelazione di segreti a lungo taciuti e protetti: un magistrato che sa agisce e colpisce in virtù delle proprie funzioni, dal proprio ufficio.
Tutti capiscono che se oggi la mafia ha osato ciò che non era mai stato ritenuto possibile, questo significa che lo Stato registra la propria sconfitta. E' una sconfitta in tutti i casi. Lo è se, come dicono a Palermo, l'alto magistrato ucciso ha pagato per la sua dedizione alla giustizia e la severità nel perseguire senza indulgenze i mafiosi. Lo è se, come dicono a Roma alcuni esponenti della commissione antimafia, c'era un'ombra nel passato del giudice, qualcosa la vittima rappresentava (lo dice l'on. Li Causi) per l'equilibrio tra cosche mafiose e nel singolare svolgersi della vicenda di Liggio, il bandito che potè fuggire e scomparire.
E' comunque una sconfitta assoluta, che né l'ambiente, né le pur forti ragioni sociali, economiche, storiche che spiegano lo scandalo della mafia valgono a giustificare. Questa sconfitta lo Stato italiano l'ha voluta. Otto anni sono trascorsi dalla costituzione della commissione antimafia. I siciliani avevano creduto che qualcosa sarebbe stato fatto come andava fatto, presto, pubblicamente e colpendo i centri del potere mafioso. Per anni, con l'acquiescenza di tutti i partiti, la commissione ha lavorato nel segreto, indagando ma tacendo. Cavilli formali si opponevano alle proteste, in realtà toglievano efficacia al lavoro fatto: la mafia poteva essere colpita al cuore solo rendendo tutto pubblico, solo se il Parlamento e lo Stato, nella loro autorità e responsabilità, avessero indicato i nomi (i nomi dei grandi e non dei piccoli), le situazioni, gli interessi mafiosi.
Se a Roma si dice che la Sicilia « è marcia », i siciliani, che avevano sperato il riscatto, hanno il diritto di chiedere: perché lo Stato, perché i partiti, perché la nazione in tutti i suoi corpi costituiti hanno scelto la via del segreto, delle denunce incomplete, delle indagini reticenti? Gravissimo è ciò che è accaduto oggi, ma è intollerabile che oggi levino lamenti scandalizzati anche coloro che chiesero e ottennero di non rendere nota al paese la realtà della mafia prima delle elezioni amministrative. In questo, più che in ogni altra cosa, sta lo scandalo intollerabile. Questo mostra che coloro che devono denunciare e colpire temono la realtà portata alla luce del sole, perché alla base della forza della mafia c'è tolleranza politica, c'è rassegnazione là dove non dovrebbe esserci, c'è una complicità indiretta proprio là dove dovrebbe esistere la repulsa senza indulgenze.
Si chiedono ai piccoli, siano complici o succubi, interessati o terrorizzati, la forza e il vigore morale che non vengono chiesti ài potenti. C'è un modo, tra i politici, negli enti economici, negli uffici, di non essere mafiosi e di trarre vantaggi dalla mafia. Ci sono tecniche per cui non si è complici, ma non ci si fanno nemici. Tra queste tecniche c'è la maniera di Vittorio Emanuele Orlando, che negava il pericolo della mafia guadagnando i voti di Partinico, e c'è quella di coloro che riducono tutto il fenomeno mafioso alle analisi sociologiche della miseria e dell'analfabetismo. E c'è la tecnica della difesa dello spirito di corpo: vi fa ricorso la classe politica, che ha paura dello scandalo, e vi fanno ricorso i corpi dello Stato.
Forse oggi il Consiglio superiore della magistratura si domanda se le indagini compiute sul caso del procuratore Scaglione, accusato dalla commissione antimafia, furono adeguatamente approfondite e se le decisioni prese furono le più giuste ai fini della lotta alla mafia: a torto o a ragione erano sorti dubbi, e il dubbio, per i giudici, come per i politici, non dovrebbe mai esistere. E' il prezzo degli onori, è la condizione della salvezza. Non dovrebbe neppure, mentre la mafia stila col sangue un bollettino di vittoria e raggiunge le città del Nord, esistere il dubbio della tolleranza, a Roma, per le banche, gli enti, le grandi aziende a partecipazione statale che scelgono la via comoda della accettazione del ricatto e magari del sostegno alla mafia.
Non si può essere al tempo stesso giustizieri e complici indiretti per pigrizia, tolleranza o formalismo. Non si può abbandonare la Sicilia ai suoi drammi e alle sue paure: i siciliani, vittime o complici, muoiono, la mafia non è mai stata cosi forte. E se tutto finisce in una giornata di indignazione nazionale, lo sdegno generale sarà servito a coprire le colpe passate e a perpetuare un costume.
La Stampa 6 maggio 1971