Nei Lager della Giustizia. I direttori di carceri dicono: Siamo fermi a 50 anni fa
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STORIA Nei Lager della Giustizia. I direttori di carceri dicono: Siamo fermi a 50 anni fa 11/07/1973 

Perché si ribellano i trentamila carcerati italiani. E' una polveriera" - Avvilenti procedure, celle soffocanti e puzzolenti, letti di contenzione e mancanza di contatti umani torturano il sistema nervoso dei prigionieri - L'ispettore delle case di pena: "Ai detenuti devono essere riconosciuti i diritti soggettivi del cittadino" - Un'istituzione fallita, che è fabbrica di delinquenza - Regina Coeli e Rebibbia, errori vecchi e nuovi.

Strafottente e gaia, crapulone e infingarda, cinica: questa l'immagine corrente di Roma. In parte potrebbero aver contribuito a crearla gli stornelli a dispetto, le canzoncine scacciapensieri: «A noi ce piace de magna e beve I e nun ce piace de lavorò»; «Francia o Spagna basta che se magna». Ma i meno conosciuti «^ritornelli antichi» che in queste sere di caldo afoso qualche vecchio intona in Trastevere, in via della Scala o al Mattonato, suggeriscono un'altra immagine di Roma popolana, se non più autentica certamente più drammatica. Poesia estemporanea di anonimi, contrappuntata, a volte, da accordi di chitarra, in qualche modo questi «aritornelli antichi» son frammenti della lunga storia, senza sostanziali mutamenti, del «popolino» romano, romantico e sanguinario, che fu plebe oppressa e che rimane sottoproletariato se non altro culturalmente.

Amore e tradimento, la morte augurata al nemico, all'amante spergiuro, o invocata come liberazione, il coltello come simbolo della virilità e del comando, il Tevere nel suo implacabile fluire, la galera: « Drenio Regina Coeli c'è no scalino I chi non salisce quello nun è romano / nun è romano e manco tresteverino ».

Nelle sere d'estate come questa, dall'alto del Gianicolo, i parenti dei carcerati affidano al vento favorevole richiami e notizie pei loro cari costretti laggiù nella torrida prigione prossima al verde dell'orto botanico. E' una triste tradizione che non s'arrende, un rito amaro, non senza solennità.

Come tombe

Per quasi un secolo (si cominciò a costruirlo nel 1870, fu inaugurato nel 1881) il carcere di Regina Coeli ha recitato un ruolo emblematico nella storia di Roma.

Costruito secondo il sistema «panottico» rivisto dal Jeremy Bentham (1748-1832), filosofo e giurista inglese, seguace del Beccaria, il Coeli ha otto «bracci» a raggerà e due rotonde, finestre a bocca di lupo e celle simili a sepolcreti: diciassette mattonelle per otto. In tanto angusto spazio, che deve contenere anche l'immondo bugliolo, oltre alle brandine, stanno in media due persone.

Fra le sue mura antiche che assorbono l'umido d'inverno ed esaltano il caldo d'estate, sono stati rinchiusi gentiluomini e truffatori, assassini e ladruncoli, monsignori e sindaci, industriali e divi del cinema. Nei «bracci» dei politici, il terzo e il sesto, hanno sofferto i patrioti torturati dalle bande nazifasciste, da Regina Coeli sono partiti i martiri delle Fosse Ardeatine. In una città senza industrie come Roma, il semiproletariato costretto ai margini delia capitale, segregato nei «borghetti» dagli sventramenti mussoliniani, dalla speculazione edilizia (che risale al 1870), ha fatto da «grande serbatoio di carne da galera» per il carcere più odiato d'Italia.

Per quanto assurdo possa sembrare, il detenuto che s'è comportato «ingiustamente» non può sopportare l'ingiustizia, dice Egisto Falalella, assistente sociale a Regina Coeli da 13 anni: «Molti sono qui perché hanno un esasperato senso della giustizia». La società ignora i detenuti, «figli» peraltro delle sue stesse contraddizioni, individui che non sono nati delinquenti, ma lo sono diventati. Li scopri solo quando si ribellano. «E' difficile che si nasca delinquenti, più facile morire criminali». Secondo alcuni studiosi, nel cuore della malavita romana ci sono i germi del nichilismo da disperazione; i furti, le rapine sarebbero il frutto delle tentazioni di chi non ha e si sente escluso dalla mensa dei ricchi. Molti, però, rubano o rapinano non tanto per protesta contro la società affluente, quanto per potersi a loro modo integrare. Certi delinquenti sarebbero in linea di massima dei «grossi conformisti». Una volta costretto fra quattro mura, il delinquente, subito il trauma dell'immatricolazione, che comporta avvilenti procedure quale l'ispezione corporale, diviene recluso e come tale avverte terribilmente il peso d'una condizione umana aggravata dalle strutture antiquate del sistema carcerario e penale.

Le bocche di lupo sono ufficiai mente abolite dal 1955, tuttavia, nella maggioranza dei casi, continuano a rimanere al loro posto. Nelle celle i reclusi si abituano a usare il bugliolo senza vergognarsi degli altri compagni di pena. Per diminuire il tanfo dell'urina e degli escrementi, dice Giulio Salierno (diventato sociologo dopo 15 anni di galera) è d'uso bruciare, dopo aver defecato, pezzi di carta nel bugliolo ma il puzzo delle feci, specialmente d'estate, continua a farsi sentire. Le gelosie in ferro, arroventate dal sole, emanano ondate di calore che fanno letteralmente boccheggiare i prigionieri. Il caldo, la sete, la porta eternamente sbarrata provocano continue crisi isteriche, che determinano l'immediato trasferimento nelle celle di punizione. Se il detenuto si agita in un modo ritenuto «pericoloso» da parte del personale di sorveglianza, finisce legato sul letto di contenzione. A torturare il sistema nervoso del detenuto concorrono «un sadismo edile assurdo e disumano» e la lentezza della procedura.

La recente rivolta nel «carcere modello» di Roma, Rebibbia (che il suo stesso architetto considera superato), prova che non basta qualche gabinetto in più e mura smaltate di verde per mantenere « calmi » i detenuti. Nel maggio scorso, per dieci giorni a Regina Coeli, per sei a Rebibbia, 1500 detenuti hanno fatto lo sciopero della fame per protestare contro la mancata riforma del Codice di procedura penale. All'inizio dello sciopero, che li ha stremati, i detenuti hanno reso noto un documento che affronta per primo il problema della carcerazione preventiva: «Molti di noi arrivano alla scadenza dei termini di carcerazione senza essere neppure rinviati a giudizio. Bisogna quindi snellire la celebrazione dei "processi con detenuti"».

Il comitato dell'associazione nazionale dei funzionari direttivi degli istituti di pena indirizzò, il 17 febbraio 1969, una lettera aperta ali 'allora ministro della Riforma burocratica, Eugenio Gatto: «La situazione delle istituzioni penitenziarie è oggi seriamente allarmante a causa dell'inammissibile arretratezza delle istituzioni stesse, in ordine all'edilizia, e in particolare all'alimentazione, al lavoro, alle scuole. Tale situazione ha superato il limite di guardia». «Siamo sempre su una polveriera, continuano a dire da allora i direttori delle carceri italiane, negli stabilimenti si vive come cinquantanni fa, andiamo avanti col regolamento del 1931 », quello del guardasigilli fascista Rocco.

La rabbia

Nel mese scorso la rabbia dei detenuti è esplosa a Roma, a Genova, a Torino, a Cagliari e più recentemente a San Vittore, in Milano. Gli esperti ritengono che la riforma penitenziaria proposta da Gonelia nel 1968 (!) che la crisi di governo costringerà a ripercorrere tutto l'iter parlamentare, non è in grado di risolvere la situazione. Sia perché entrerà in vigore «chissà quando», sia perché «alla sua base vi è sempre un'impostazione paternalistica dei rapporti fra Stato e cittadino e in specie ira la società le cui regole sono state infrante e il soggetto che di tali infrazioni si è reso responsabile».

Il sistema autoritario vigente, come ha sempre sostenuto Vincenzo Marolda, ispettore generale dell'amministrazione penitenziaria, riassumendo anche le opinioni di tutti i funzionari direttivi delle carceri, «impedisce ogni progresso e dev'essere sostituito con concetti di democratizzazione: ai detenuti debbono essere riconosciuti i diritti soggettivi propri del cittadino con le sole limitazioni imposte dalla situazione contingente».

Un altro aspetto del problema da affrontare è quello degli agenti di custodia. A una popolazione carceraria di circa trentamila persone «badano» soltanto ottomila agenti (mal pagati e non preparati a «redimere»), che debbono essere presenti 24 ore su 24. Ed è per questo che i detenuti rimangono chiusi 22 ore su 24 in cella, altrimenti non potrebbero essere sorvegliati. «Soltanto in alcuni istituti (ben pochi invero) sono in atto alcune sperimentazioni di trattamento rieducativo che tuttavia procedono con difficoltà», per la cronica mancanza di personale specializzato. Nelle cosiddette «carceri-modello» il detenuto, paradossalmente, vive in condizioni peggiori che non a Regina Coeli.

«A Rebibbia, dice don Luigi Cefaloni, cappellano al Coeli da 31 anni, il detenuto vive ancor più isolato, tagliato completamente fuori dal mondo». Si soffre più a Rebibbia che a Regina Coeli, sostiene Giulio Salierno, «potrò sbagliarmi, ma Rebibbia sarà un carcere in continua rivolta».

Rifare tutto

L'ex recluso C. P. ricorda con orrore le celle d'isolamento di Rebibbia, «più zozze di quelle di Regina Coeli. I gabinetti son sempre otturati, la puzza è insopportabile». Ma a parte le condizioni ambientali, soggiunge, il vero dramma delle carceri è la mancanza di contatti umani. Il detenuto ha bisogno di comunicare, col «superiore», col direttore, con l'assistente sociale. «Invece oltre a mura di mattoni trova a dividerlo dagli altri un muro di carte eretto dalla burocrazia».

Il più eminente penitenziarista americano, Sanford Bates, scrive: «La prigione è fallita come istituzione educativa, è fallita come impresa industriale, è fallita come istituzione disciplinare». «Fin quando il carcere "rimarrà" una fabbrica di delinquenza e non una scuola di vita, dice er nasone, un ex recluso del Coeli. la società continuerà ad allevare reietti e la criminalità aumenterà. Bisogna avere il coraggio di rifare tutto daccapo: nelle prigioni metteteci i maestri, i professori, date lo sport ai carcerati, dategli una mano insomma, altrimenti non si salveranno mai!».

C'è una vecchia canzone nata a Regina Coeli: «Ventisei anni. Se sorto ancora vivo I i miei ragazzi con me ce l'avran / al delinquente non danno del pan / se ha sete beva l'acqua del rivo».

Igor Man - La Stampa 11 luglio 1973


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