«Andiamo ovunque a parlare con detenuti, cappellani e direttori di carceri. Abbiamo organizzato confronti a Scampia, Locri, Pergusa. Abbiamo fatto più di trenta incontri, quasi tre al mese, e ora vogliamo proporre alle Conferenze episcopali regionali di estendere a tutta Italia quella scomunica per i mafiosi che è già in vigore nelle diocesi siciliane perché la criminalità organizzata non è più un’emergenza solo del Mezzogiorno ma anche al Nord e al centro». Lo racconta a Vatican Insider, monsignor Michele Pennisi, membro del gruppo di studio istituito esattamente un anno fa, il 17 giugno 2017, in Vaticano, per approfondire la minaccia delle mafie alla Chiesa e alla società civile.
«I clan vanno dove ci sono i soldi e con la crisi è più conveniente per loro fare affari lontano dalle loro terre sempre più impoverite e intrecciare rapporti con potentati economici e politici in ogni regione», spiega l’arcivescovo di Monreale che nel suo territorio ha i comuni di San Giuseppe Jato e di Corleone. Da dodici mesi fa parte della task force, in funzione presso il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, con l’obiettivo di approfondire il fenomeno mafioso insieme a don Luigi Ciotti, fondatore dell’Associazione “Libera” e cinquanta altri esperti, laici e religiosi, magistrati, italiani e stranieri. «Cerchiamo nuove strade per combattere la mafia sensibilizzando la società civile e le istituzioni contro il crimine organizzato», precisa Pennisi, «la mafia danneggia la Chiesa e la mentalità ecclesiale perché propone modelli opposti alla Chiesa».
Da dove è partito il vostro lavoro?
«Abbiamo innanzitutto definito le condizioni per la conversione dei mafiosi che non può essere ridotta a un fatto intimistico ma deve avere una dimensione pubblica, essere seguita da una riparazione del male fatto, da una richiesta di perdono alla vittime e dall’abbandono della criminalità organizzata. Chi non si converte è fuori dalla comunione ecclesiale, è scomunicato. E la scomunica comminata è una pena medicinale, un monito in vista di un possibile ravvedimento e della conversione. Perciò la legge penale universale deve contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile perché il fenomeno assume oggi contorni globali. Ci siamo chiesti perché la scomunica non valga in quei luoghi in cui vi sia la presenza di associazioni mafiose, i cui aderenti non risultano invece colpiti da scomunica in assenza di un decreto formale da parte dei singoli vescovi o delle conferenze regionali o nazionali».
Il modello è la scomunica già in vigore per i mafiosi nelle diocesi siciliane?
«Sì. L’obiettivo è estendere all’episcopato italiano e mondiale ciò che nelle diocesi siciliane è stato stabilito per chi si rende colpevole di peccato di omicidio collegato alla mafia. A tal fine, a 25 anni dal monito di Giovanni Paolo II ai mafiosi, la Conferenza episcopale siciliana ha pubblicato il mese scorso un documento intitolato “Convertitevi” sull’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa e ai clan mafiosi».
Ci sono state reazioni?
«In diverse carceri nelle quali sono stato in visita nell’ultimo periodo, qualche direttore o cappellano degli istituti di pena mi ha detto esplicitamente che non era opportuna la mia presenza nei reparti dove sono detenuti mafiosi perché c’erano state da parte loro delle proteste per la nostra ribadita proclamazione della scomunica per chi fa parte della mafia. Con i cappellani delle carceri e con il loro coordinatore don Raffaele Grimaldi ci siamo impegnati a spiegare ai mafiosi cos’è la scomunica portando anche il messaggio del segretario del dicastero per lo Sviluppo integrale, monsignor Bruno Maria Duffé».
Come spiega queste proteste in carcere?
«I mafiosi si fanno una religione per conto loro. Spesso la scomunica non tocca tanto loro quanto i loro parenti. Per esempio sappiamo che il boss Matteo Messina Denaro è indifferente alle problematiche religiose e non è interessato alla scomunica, mentre ne sono toccati i suoi parenti, soprattutto per quello che riguarda il rifiuto dei funerali in chiesa in quanto pubblici peccatori e il divieto di fare da padrino a battesimi e cresime o di entrare in confraternite religiose. Per questo non bastano le affermazioni generiche, servono proibizioni formali. Sono questi provvedimenti che danno fastidio ai mafiosi e alle loro famiglie».
Chi ha sollevato la necessità di estendere al nord la scomunica ai mafiosi?
«Sono stati i vescovi meridionali, nel Mezzogiorno la sensibilità verso la minaccia mafiosa è maggiormente avvertita. Ma oggi il connubio mafia-affari è nazionale ed è un problema pastorale che non può essere confinato nelle regioni del sud. L’impegno civile a favore della legalità riguarda ogni cittadino. Per il cristiano la lotta alla mafia richiede un incremento di responsabilità, per questo sono state chiamate in causa categorie morali e teologiche come la conversione e il peccato. I modelli a cui ispirarsi sono l’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi e le prese di posizione forti di Papa Francesco, incluso lo storico incontro con i familiari delle vittime innocenti della mafia nella primavera del 2014. Francesco ci chiede di coinvolgere nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta che la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza. Oltre al fatto di commettere specifici delitti è l’esser di per se stesso un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena canonica e cioè la privazione dei funerali religiosi, la scomunica».
Quali sono i precedenti?
«La Conferenza episcopale siciliana in una lettera collettiva già nel 1944 , pur senza espliciti riferimenti alla mafia, dichiarava: “Per parte nostra dichiariamo colpiti di scomunica tutti quelli che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto o volontario”. Nel 1952 nel Concilio plenario della Sicilia questa scomunica fu estesa ai mandanti e ai collaboratori dei reati di mafia. Nel febbraio del 1973 i vescovi siciliani condannano con fermezza “il fenomeno perdurante della mafia che infetta alcune zone della nostra isola. Nel 1982 si scomunicava chi si fosse macchiato di crimini violenti che hanno “come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita”. La scomunica è stata ribadita il 13 aprile 1994. La Chiesa siciliana, per bocca dei suoi pastori, ha ribadito un mese fa che la mafia è peccato e i mafiosi sono peccatori perché oppongono un “rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza”. A questo peccato si rendono solidali anche i fiancheggiatori dell’organizzazione mafiosa e coloro che ne coprono i misfatti con la connivenza e con il silenzio omertoso».
Che tipo di peccato è?
«Si tratta di un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie. Per questo motivo noi vescovi abbiamo rimarcato l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica».
Qual è il contributo di Papa Francesco?
«Nel suo discorso a Sibari del 21 giugno 2014 c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso di chi commette atti criminali tipici della mafia , ma anche della stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”. Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi. Dice che questa condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore».
Quindi la scomunica dei mafiosi va uniformata a livello nazionale?
«Sì, perché questo vuoto normativo a livello generale è dovuto alla difficoltà nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali ha potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società a livello nazionale».
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