I giudici si erano ritirati ieri mattina alle 11 - Le pene variano da 6 anni e 8 mesi ad un minimo di 2 mesi Assolti 42 imputati minori - La "Primula di Corleone" ha avuto 6 anni e 6 mesi; "Frank tre dita" Coppola 6 anni; stessa pena per Gerlando Alberti - Tommaso Buscetta è stato condannato a 2 anni e 11 mesi. Trcntaquattro condanne la maggiore a 6 anni e 8 mesi, la minore a 2 mesi) e quarantadue assoluzioni: questa la sentenza del tribunale nel processo ai boss e ai gregari della « nuova mafia ». Tutto sommato un altro, clamoroso fallimento della giustizia: quasi tutti gli imputati, infatti, tornano in libertà subito o dovranno attendere soltanto qualche mese perché hanno scontato la pena. La condanna più severa è toccata a Gaetano Badalamenti del quale il p. m. aveva chiesto l'assoluzione. E' stato ritenuto il capo della mafia che trasferitasi da Palermo si era insediata a Roma. Secondo i carabinieri Badalamenti è stato il cosidetto presidente del tribunale della mafia. Luciano Liggio, Gerlando Alberti e Frank Coppola sono stati condannati a 6 anni, Tommaso Buscetta a 2 anni e 11 mesi. La assoluzione più clamorosa (e del tutto inattesa) è stata quella dei cugini Salvatore Greco detto l'ingegnere e Salvatore Greco detto «Ciaschiteddu» che, secondo gli esperti, sono sempre stati al vertice della organizzazione mafiosa. Ancora una volta i due cugini, latitanti dall'epoca della strage di Ciaculli (giugno 1963) quando scoppiò un'auto carica di tritolo destinata ad ucciderli, sono riusciti a evitare una punizione. Se non fossero stali condannati di recente dalla corte d'assise di Catanzaro sarebbero degli incensurati o quasi. Giuseppe Di Cristina ha avuto un trattamento del tutto particolare per cui è stato posto subito in libertà. Il tribunale ha deciso che il suo caso debba essere preso in esame e risolto dopo l'intervento della Corte Costituzionale. Il difensore avv. Girolamo Bellavista aveva sostenuto nella sua arringa che è illegittima la norma del codice di procedura penale per cui il tribunale non aveva ritenuto opportuno rintracciare per interrogarla come testimone la vedova di Candido Ciuni, l'albergatore di Ravanusa ucciso nell'ospedale civico di Palermo. Giuseppe Di Cristina era stato assolto tre mesi fa da questo delitto per non avere commesso il fatto. Il tribunale in pratica ha ritenuto che effettivamente essere mafioso significa far parte di una associazione a delinquere. Non è stato d'accordo con l'accusa, invece, nel ritenere che agli imputati dovesse essere attribuita la aggravante della scorreria in armi. Questo ha determinato che le pene siano state tutte molto lievi per cui la maggior parte degli imputati tornano a casa se non subito fra breve. Per avere un'idea della mitezza della pena è sufficiente fare una proporzione: gli anni di reclusione inflitti dal tribunale sono stati 112; quelli chiesti dal p.m., che ha presentato subito appello contro la sentenza, erano 587. L'incertezza sulla validità delle iniziative assunte per combattere la mafia e su quella delle conclusioni da prendere, ha dominato tutto il processo: dall'inizio alla fine. E' stata un'incertezza che ha dominato persino gli accusatori ad esclusivo vantaggio, ovviamente, degli accusati: La denuncia dei mafiosi soltanto per associazione a delinquere ha coinvolto da principio la responsabilità di 114 imputati. In aula, però, ne sono arrivati appena 76: il giudice istruttore ha ritenuto infatti che per 38 imputati le prove fornite dagli accusatori non fossero sufficienti a giu| stificare un rinvio a giudizio. In dibattimento, al termine della requisitoria, il pubblico ministero ha sottolineato maggiormente l'incertezza dell'accusa: ha chiesto ventitré assoluzioni e soltanto 53 condanne, per un totale di 587 anni di reclusione. Ha chiesto, è vero, la condanna di tutti i boss a quattordici anni: Luciano Liggio, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti, i due cugini Salvatore Greco detto «L'Ingegnere» e Salvatore Greco detto «Ciaschiteddu» (soprannominato in questo modo per il suo fisico tozzo e grasso da far ricordare l'immagine di un fiasco), Pietro Davi, Giuseppe Calderone, Salvatore Catalano e Giuseppe Di Cristina. Ha chiesto altre quattro condanne a tredici anni; otto a dodici anni; quindici a dieci anni; sei a nove anni; quattro ad otto anni e tre (tra cui quella di Frank Coppola, ma come semplice esecutore) a sette anni. I giudici del tribunale (tre magistrati, esperti in diritto civile che, per la prima volta, hanno affrontato in questa occasione il problema della mafia) oggi, quando si sono riuniti in camera di consiglio verso le undici del mattino, si sono trovati di fronte ad un quesito facile forse in apparenza, ma molto difficile nella sostanza. Luciano Liggio si è sempre disinteressato del processo: da principio perché latitante, poi perché, comunque, una eventuale condanna non avrebbe mai avuto influenza sulla sua condizione di ergastolano. Frank Coppola è intervenuto soltanto per polemizzare con il questore Angelo Mangano, preoccupandosi esclusivamente di dissipare il sospetto (molto più pericoloso di qualsiasi condanna per le eventuali conseguenze) che possa essere stato un confidente della polizia. II programma dell'associazione mafiosa — è stata la tesi dell'accusa — era il contrabbando di tabacco, il traffico degli stupefacenti, il commercio clandestino del burro a prezzo agevolato in seguito agli accordi per il Mercato comune ed «altre at tività illecite parassitarie». «La mafia — ha osservato in questo processo l'accusa ha creato un'associazione multipolare, estremamente fluida, dinamica, capace di eccezionale mobilità, con possibilità operative a fisarmonica per meglio eludere i controlli di polizia e realizzare imprese criminose di ogni genere senza lasciare tracce. Nonostante la diversa dislocazione dei singoli mafiosi, essa ha mantenuto la tradizionale compattezza tramite gli stretti collegamenti con i suoi affiliati, gli incontri, i contatti telefonici, le riunioni al vertice, presentandosi come una omogenea molteplicità di soggetti riuniti nella società mafiosa psicologicamente accomunati nel vinculum sceleris, ciascuno apportando il proprio contributo». Sembrano queste soltanto parole che, forse, non possono essere facilmente traducibili in termini giuridici tali da giustificare una condanna severa che presuppone, sempre, una prova certa di colpevolezza. Ma quando si accerta che Luciano Liggio ha guadagnato somme ingenti mentre tutte le polizie dello Stato gli davano la caccia; quando si aggiunge il convincimento che tutti i boss mafiosi hanno continuato a rimanere in contatto fra loro anche nel periodo in cui erano al soggiorno obbligato; quando si ha la sicurezza o quasi che un determinato tipo di attività illecite, compiute in Piemonte e in Lombardia ha una caratteristica mafiosa ed è stato realizzato su ordini provenienti da Palermo, ogni dubbio ed ogni perplessità vengono a perdere di consistenza.
La Stampa 30 luglio 1974