Tutti sono d'accordo nella diagnosi: ì detenuti protestano, devastando le carceri, contro la lentezza, spesso paradossale, con cui si muove la giustizia. E tutti sono d'accordo nel ritenere che a questa lentezza si potrebbe ovviare con una radicale riforma del codice di procedura penale: lo dicono i giuristi, lo assicurano gli uomini politici. Ma illudersi che le norme processuali possano essere modificate rapidamente, come tutti chiedono ormai da anni, sarebbe un errore macroscopico. Nella migliore delle ipotesi il codice nuovo potrà entrare in vigore, salvo complicazioni tutt'altro che imprevedibili ed impreviste, fra tre o quattro anni. E poiché nel dopoguerra almeno tre volte s'è cercato di metter mano alla riforma senza riuscirvi, le prospettive anche in questo caso non sono rosee.
Infatti, il progetto che prevede una delega al governo è ancora all'esame della Camera, poi dovrà tornare al Senato e soltanto allora comincerà a lavorare una commissione di giuristi (ancora da costituire, ovviamente) che avrà a disposizione due anni (quasi certamente prorogabili) per la redazione definitiva del codice. Se tutto andrà bene (e bene non andrà perché i contrasti tecnici sono notevoli) se ne dovrebbe parlare nel 1976 o nel 1977.
Qualcosa, però, nel frattempo bisognerà pur fare. Il codice è antico di oltre 40 anni, risente di concezioni superate, non risponde alle esigenze attuali. Qualche innovazione vi è stata apportata in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale: ma spesso il rimedio s'è rivelato peggiore del male, perché il risultato è stato che la lentezza della giustizia anziché diminuire è aumentata, sì è dilatata in modo esasperante.
L'esodo poi di un migliaio di cancellieri che hanno preferito andare in pensione anzitempo, ha reso la situazione drammatica. Non tutti, giuristi e politici, sono d'accordo sulla opportunità di procedere a riforme parziali, settoriali, perché si corre il rischio di perdere di vista il quadro generale. Le critiche in questo senso non sono del tutto infondate. Ma qualcosa bisogna pur fare perché è assurdo che un imputato, peggio se detenuto, debba attendere anni prima di ottenere una sentenza definitiva che possa consentirgli di essere assolto se innocente o di scontare la pena e rifarsi una vita se colpevole.
Innanzi tutto, per accelerare i tempi del processo penale sarebbe opportuno mettere a disposizione della giustizia mezzi tecnici più adeguati. Negli uffici giudiziari, ad esempio, si ignora l'uso delle telescriventi e le comunicazioni avvengono ancora con il sistema del telegrafo, mentre soltanto raramente è consentito ai magistrati d'utilizzare il telefono per ottenere informazioni urgenti, che possono richiedere soltanto per lettera.
Si potrebbero eliminare subito talune formalità superflue che, spesso, costituiscono un pericolo grave per la vita stessa di tutto il procedimento. Non è infrequente che un processo venga annullato al suo secondo o terzo stadio (in corte d'Appello o Cassazione) perché si è accertato che in primo grado non si è rispettata una semplice formalità che non ha avuto alcuna influenza sulla sostanza.
Terzo problema da risolvere rapidamente: quello delle perizie. E' assurdo, per non dire paradossale, che ogni indagine tecnica abbastanza semplice presupponga tre o quattro mesi con la conseguenza di bloccare per quel periodo tutto il cammino del processo. Poi: stringere i tempi per obbligare i giudici a depositare le motivazioni delle loro sentenze più rapidamente. Il codice, ora, prevede scadenze precise che però nessuno rispetta mai o quasi mai. Dal momento in cui viene pronunciata una decisione in dibattimento a quello in cui viene resa nota la motivazione trascorrono cinque o sei mesi che possono anche diventare un anno se il caso è molto importante. E sino a quando non è nota la motivazione il processo non potrà riprendere il suo cammino in corte d'appello.
Vi è qualcos'altro. E' necessario, è indispensabile che per illustrare una sentenza si scrivano 200 o 300 pagine, delle quali una buona parte inutili o destinate a mettere in evidenza la erudizione dell'estensore? Il Consiglio superiore della magistratura qualche anno fa raccomandò la sintesi a tutti i giudici: il suggerimento è rimasto lettera morta.
Infine: l'istruttoria. Che sia opportuno dedicare un tempo ragionevole all'indagine è fuori discussione. Ma è assurdo che, conclusa l'inchiesta, il pubblico ministero prima e il giudice istruttore scrivano ognuno per proprio conto volumi interi per giungere alle medesime conclusioni. Secondo calcoli approssimativi, eliminando una delle due fatiche si risparmierebbe almeno il dieci o il venti per cento dal tempo. Non è molto, ma pur qualcosa: e sono riforme sulle quali, più o meno, sono tutti d'accordo senza attendere il nuovo codice di procedura penale che sarà pronto quando magari incalzeranno altre esigenze.
La Stampa 1 agosto 1973