Le carceri in Francia (40 mila detenuti in 25 mila celle, in condizioni sanitarie « indescrivibili » Si moltiplicano le rivolte).
Il regime penitenziario francese è in crisi. Le agitazioni, i suicidi, gli ammutinamenti e le rivolte violente si moltiplicano nelle carceri, e una volta placati gli animi, il più spesso a forza, le susseguenti inchieste e rivelazioni indicano o riconoscono che il malcontento dei prigionieri non era infondato, anzi. Nell'applicare la giustizia ci si macchia di ingiustizie contro la dignità dell'uomo. La reclusione, che nel concetto moderno dovrebbe tender a riabilitare, cioè migliorare l'individuo privato della libertà, lo peggiora. Magistratura, sociologi e psicologi ammettono questo errore, o colpa, ma non sanno come emendarlo in pratica e non in teoria. Il tema, d'attualità nella Quinta Repubblica, può indurre a qualche riflessione anche in Italia, sofferente di mali analoghi. L'ultima agitazione di detenuti è in corso da tre giorni nel carcere centrale di Nimes, in Provenza. Quattrocento prigionieri sono in «sciopero»: rifiutano cioè di compiere i pochi lavori mal retribuiti e umili (come la cucitura di sacchi postali, l'intreccio di vimini o l'incollatura di buste) che sono loro concessi e sui quali sovente oscuri mediatori si arricchiscono. Motivo della protesta: i locali del penitenziario sono angusti, vecchi e malsani.
E chi potrebbe negarlo? La prigione di Nimes è un antico forte, edificato tre secoli fa dall'architetto militare Vauban, maresciallo di Francia. Gli scioperanti chiedono la nomina di una commissione d'inchiesta, e probabilmente la otterranno. Ma la situazione di Nimes è all'incirca la stessa degli altri «istituti» penali del paese, a cominciare da quello di Toul, sulla Mosella, insorto clamorosamente due settimane fa, con impressionante strascico di scandali e indignazioni non ancor spenti, in difesa dei carcerati di Toul — qui per la maggior parte a espiare i reati minori, come furti e borseggi, od ancora in attesa di processo — si mossero prima il cappellano e poi la psichiatra della prigione: l'uno e l'altra rivelando una quantità incredibile di abusi e prevaricazioni commessi all'ombra della direzione.
La dottoressa, Edith Rose, scrisse un lungo, commovente memoriale apparso pure — grazie a donazioni di enti filantropici — tra le pagine pubblicitarie di Le Monde, Denunciò che parecchi detenuti più che criminali erano malati di nervi bisognosi di cure: e tuttavia li si obbligava a lavorare, o li si legava per giorni e giorni in cella, senza alcuna autorizzazione medica. Il personale di custodia d'altronde aveva le sue giustificazioni: era insufficiente, né lo si poteva ritenere colpevole della propria impreparazione. Antiquati sono gli edifici, ed antiquati parimenti le norme e l'addestramento dei funzionari. Ai prigionieri, questo Natale, è stato negato o limitato il recapito dei pacchi dono. La misura, a prima vista crudele, non è proprio inspiegabile: un pacco non contiene necessariamente solo regali innocui come i dolci, ci possono essere dentro coltelli e armi. Quindi va controllato, ma per un accertamento scrupolosa non ci sono abbastanza controllori.
Dunque, è meglio non correre rischi, in una situazione già tesa, e lasciare le celle spoglie; a lunga scadenza però si accumulano nuovi rancori. Per la loro temerarietà la psichiatra ed il cappellano di Toul sono stati sospesi dagli incarichi. Però il loro gesto non è rimasto senza frutti. La stampa ha indagato ampiamente sui difetti di struttura del sistema, sollecitando una riforma di fondo. Le cifre pubblicate parlano di per sé: nella Quinta Repubblica quarantamila detenuti occupano 25 mila celle, perlopiù non riscaldate, nutriti in modo deplorevole, in condizioni sanitarie definite da un giornale come «indescrivibili», alla mercè di guardiani snervati dalla propria scarsità. Il paese ha altri problemi «prioritari»: però, concordano i magistrati, se si vuole che dai penitenziari escano nella società uomini e non delinquenti ulteriormente incrudeliti, bisognerà assolutamente consacrare loro più denaro e più amore del prossimo.
La Stampa 5 gennaio 1972