Le cause dei mali che travagliano la società italiana m questo tormentato periodo storico sono antiche e profonde, ma il loro aggravarsi ha una spiegazione ben precisa: la Costituzione, nata per eliminare questi mali, continua ad essere inattuata in troppe sue parti. I principali valori costituzionali stentano a farsi strada nella coscienza dei cittadini e tardano sempre più a diventare realtà concreta. Prendiamo il problema carcerario, ritornato in drammatica evidenza nei giorni scorsi. Per lo meno, tre principi, che lo riguardano direttamente, sono tuttora lettera morta. «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva »: « Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato ». La Repubblica riconosce e garantisce i diritti Inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ».
La Situazione è desolante. Non solo non si vedono tracce delle riforme radicali, che questi dettati della Costituzione reclamano da oltre vent'anni, ma si sentono ancora troppe voci contrarie all'umanizzazione della vita carceraria. L'aumento della criminalità, che induce molti ad osteggiare il rinnovamento del sistema penitenziario, dovrebbe, caso mai, aprire gli orchi in senso opposto. Proprio il fatto, frequentemente lamentato, che un gran numero di reati è da addebitare a persone già ospitate in stabilimenti di custodia coatta, sta a dimostrare che le attuali strutture carcerarie favoriscono non il recupero, bensi la ricaduta. Che cosa dire, poi, di chi, entrato in carcere per un sospetto infondato, comincia a delinquere dopo il suo ritorno in libertà?
Diventa facile il commento che sovente la prigione si trasforma inavvertitamente in una scuola di criminalità. Ma, anche sotto un altro inulto di vista, si rivela gravemente erronea la posizione di chi vorrebbe che i carcerati continuassero a venir trattati senza mercé, in uno stato di crescente degradazione, sempre più spersonalizzati, ridotti ad un semplice numero, come se fossero cose e non esseri umani.
Vivendo al dì fuori, si dimentica facilmente che la privazione della libertà personale e già di per sé misura di profonda portata afflittiva, anzi la più grave che si possa concepire.
Lo scriveva Beccaria due secoli fa: « Non si deve ulteriormente degradare l'uomo privato della libertà: egli resta pur sempre persona ». Ecco perché non gli si possono disconoscere quegli altri diritti non incompatibili con la privazione della libertà personale: per esempio, la segretezza della corrispondenza, il diritto di riunione, il diritto ad una retribuzione adeguata al proprio lavoro, la tutela della salute e dei rapporti familiari, il diritto all'istruzione.
Nel recente dibattito svoltosi in Senato per l'approvazione della riforma dell'ordinamento penitenziario, l'ultima dichiarazione di voto — ed era di un senatore della maggioranza - ha dato atto che « in effetto, le strutture carcerarie esistenti risultano assolutamente inadeguate alle esigenze di una decente convivenza civile ». Il che equivale a riconoscere che non sono rispettate né civiltà né la decenza.
Il progetto di riforma è ora all'esame della Camera. Fortunatamente, degli emendamenti del Senato hanno migliorato in maniera sensibile il discutibile testo originario. Tuttavia, ancora parecchio resta da fare. Tra l'altro, ci vorrebbe un po' più di coraggio nel conferimento di precise responsabilità ai detenuti nei vari momenti nella vita carceraria. Inoltre bisognerebbe preoccuparsi maggiormente dei presupposti di ordine logistico e organizzativo: senza un massiccio ammodernamento dell'edilizia penitenziaria, senza un congruo aumento degli organici del personale direttivo e degli agenti di custodia, senza una loro più razionale utilizzazione, senza la predisposizione di un servizio criminologico efficiente, senza un'adeguata preparazione degli assistenti sociali e degli educatori destinati ad operare a fianco dei detenuti, senza una organica assistenza post carcerarla, molte disposizioni del progetto, pur nobilissime nei loro intenti correrebbero il rischio di restare belle parole, e nulla più. Ma di parole, al giorno d'oggi, dopo tanta inflazione di promesse, nessuno sa che cosa farsene. Specie chi è ristretto in carcere.
Giovanni Conso - La Stampa 18 aprile 1971