Le carceri dimenticate
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STORIA Le carceri dimenticate 10/07/1973 

Può sembrare assurdo rimproverare a Rumor e ai quattro partiti di non aver preso un impegno di più mentre preparavano il programma di governo, già cosi folto, non per eccesso d'ambizioni ma per necessità, e difficile da realizzare entro la fine della legislatura. E tuttavia c'è una riforma che a noi pare non meno importante della scuola, della casa, dell'assistenza medica per difendere la qualità civile della nostra società, e non meno necessaria di nuovi codici o di leggi migliori per la tutela dell'ordine democratico: la riforma carceraria.

Se nessuno ne ha parlato nelle trattative a quattro, rimane possibile che Rumor vi accenni nei discorsi programmatici alle Camere; però non c'illudiamo né ch'essa venga inserita tra le riforme prioritarie, né che le eventuali parole del presidente risveglino l'interesse dei parlamentari. Una buona riforma carceraria non soltanto non sarebbe popolare, ma rischierebbe di ricadere sul governo e sui deputati: una gran parte dell'opinione pubblica è convinta — a torto — che per lottare contro la criminalità occorra moltiplicare gli arresti ed inasprire le pene, e che gli aspetti più dolorosi e repressivi della vita carceraria siano un deterrente efficace contro la delinquenza.

I legislatori sanno che la verità è tutta diversa; ma ci vorrebbe qualche coraggio, e un fervore morale abbastanza inconsueto, per andare controcorrente nell'interesse comune. I singoli drammi carcerari commuovono certo i lettori di giornali. Appare crudele e inquietante che il ragazzo romano Silvio Ceccarelli sia rimasto un anno a Regina Coeli, in attesa d'essere processato per scippo, mentre il cancro al pancreas lo divorava, e che solo i magistrati giudicanti si siano decisi a mettere l'agonizzante in libertà provvisoria. Suscita pietà e sdegno la morte di Luigi Zanlungo, sospetto rapinatore, anch'egli in attesa di giudizio, ucciso da una vecchia lesione cranica non curata. Ci si chiede con sospetto, e forse cattiva coscienza, perché nessuno si sia accorto che l'anarchico Franco Serantini stava morendo in cella, perché un detenuto si sia impiccato nel vecchio carcere dell'Aquila.

Ma quando scoppiano rivolte a S. Vittore, a Rebibbia o all'Ucciardone, il giudizio dei più è che « quei delinquenti stiano anche troppo bene » e che il manganello sia meglio delle riforme per riportare l'ordine. Ben pochi conoscono, o sono pronti a condividere, il giudizio degli stessi direttori dei servizi penitenziari: a parte ogni valutazione umanitaria o morale, carceri migliori renderebbero la società più sicura.

Riforma dei codici, riforma dell'amministrazione giudiziaria, riforma del regime carcerario sono tre parti, indissolubilmente legate, di un'unica riforma diretta a conciliare principi costituzionali ed efficienza nella difesa della società. Quasi metà dei 30 mila detenuti sono in attesa di giudizio: pur dovendosi presumere innocenti secondo l'art. 27 della Costituzione, aspettano il processo, espiando di fatto una pena, per uno, due, tre anni.

La lentezza della macchina giudiziaria contribuisce all'affollamento delle carceri; le prigioni sovraffollate e primitive impediscono che la pena serva, come la Costituzione prescrive, « alla rieducazione del condannato » (e molti sarebbero ricuperabili); la promiscuità di arrestati e condannati, le lunghe detenzioni preventive, l'inadeguatezza dei riformatori fanno delle carceri le più pericolose « scuole del delitto ».

Sono verità elementari, su cui si trovano d'accordo gli esperti d'ogni Paese civile, ma che i governi tendono a dimenticare e che le opinioni pubbliche appaiono riluttanti ad accogliere (in Francia, dove il regime carcerario è peggiore del nostro, le riforme sembrano ancora più lontane). Molti, temiamo, giudicheranno un paradosso, o una sfida, la « Carta dei diritti del carcerato » redatta dal Consiglio d'Europa: raccomandazioni che vogliono difendere la personalità, la salute fisica e psichica, le speranze di riabilitazione dei detenuti; e non nascono dalla tesi demagogica che ogni crimine sia colpa soltanto della società, ma dal principio che anche il carcerato è un uomo e dalla realistica convinzione che la brutalità repressiva inasprisce la delinquenza.

Se il governo Rumor s'impegnasse a tradurre nei fatti questa « Carta » europea, non attuerebbe soltanto una nobile riforma civile, ma favorirebbe — sia pure a scadenza non immediata — la difesa dell'ordine.

Carlo Casalegno (in foto) - La Stampa 10 luglio 1973


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