Lasciando la prigione Prima difficoltà per chi ritorna uomo libero è l'assurdo debito con lo Stato: 300 lire al giorno per le « spese di mantenimento » - Su 100 che escono, soltanto 10 si reinseriscono nella vita normale; gli altri sono incorreggibili o disadattati per sempre - I difficili rapporti con la famiglia e il mondo che è cambiato.
Espiata la pena, si devono pagare le « spese di mantenimento carcere ». Tanti giorni dì prigione a 300 lire al giorno fa tanto. Chi è stato in carcere cinque anni riceve un conto di oltre mezzo milione. Sé non ha soldi, gli pignorano quello che possiede. Qualche anno fa un carcerato e una carcerata si sposarono. Lei uscì per prima. Lavorò e acquistò dei mobili a rate: soltanto l'indispensabile. Poi uscì il marito. Vissero in pace un mese, finché arrivò l'ingiunzione di pagare quasi un milione per il mantenimento in carcere di entrambi. Non avevano la somma: i mobili furono pignorati, ad essi restarono le cambiali.
Il debito con lo Stato è la prima difficoltà che incontrano molti che escono dalla prigione e cercano di reinserirsi nella vita normale. Assai presto vengono altre difficoltà, perfino più gravi. Non sono molti quelli che le superano. Alla «Associazione rinascita sociale » di Milano la dott. Renzi mi dice: « Su cento che escono, ne inseriamo dieci, con successo. Novanta li perdiamo ». Dì questi, qualcuno, incorreggibile, ritorna a San Vettore. Gli altri brancolano, cercano, falliscono e piangono e maledicono, ritentano. Sono dei disadattati; non si ritrovano in famiglia e nella società, perdono facilmente il posto di lavoro.
« Chi sono gli incorreggibili? » domando a un cappellano che ha oltre vent'anni d'esperienza carceraria. Risponde: « In genere gli sfruttatori, i borsaioli, i truffatori, quasi la,metà dei ladri. Fanno del reato una professione e se la considerano una professione, non hanno, coscienza di colpa, se non hanno coscienza di colpa tantomeno intendono cambiare vita. Ci può essere recupero, ma in età avanzata e in percentuale molto bassa ». Il carcere non li guarisce affatto, anzi li perfeziona nel delitto. Escono, si intruppano nel giro di prima, ogni tanto qualcuno riprende la via di San Vittore. Gli amici di un bar di Porta Ticinese leggono la notizia e non ci pensano più: da quel momento diranno che lo scomparso « l'è via » e sarà tutto.
E gli altri, quelli decisi a non commettere più guai? C'è chi ottiene la libertà — caso limite — si fa frate; ci sono parecchi che riescono bene in qualche lavoro. Ma la maggior parte trova tutto troppo difficile. Ecco alcuni esempi e confessioni raccolti durante questa inchiesta. « Mi negavo anche la sigaretta per mandare a mia madre i pochi soldi che guadagnavo lavorando in carcere » racconta un giovane. E' uscito e le assistenti sociali gli hanno trovato un posto \ in una fabbrica di Sesto San Giovanni. « Poco, settantamila al mese: Ma mia madre ed io ci viviamo ». Dopo qualche settimana è stato preso dalla paura: « E se i compagni di lavoro venissero a sapere che sono stato in galera? ». La paura è diventata angoscia. Si è convinto che i compagni sapevano. Ha incominciato a interpretare male ogni sguardo e a trovare un'allusione in ogni frase. « Pensano che sono un delinquente. Se non fosse per mia madre mi sarei già licenziato, ma non so se riuscirò a resistere ». In fabbrica non parla con i compagni, evita di guardarli. Mi dice: « Vivo con il terrore continuo che qualcuno perda il portafogli o l'accendisigari e si metta a strillare che l'ho rubato io ». .
Ecco un uomo che è stato in carcere otto anni. « In tutto quel tempo non ho mai avuto un angolo di vita privata, mi hanno tolto qualsiasi responsabilità ». Torna a casa e trova affetto, i suoi sono contenti — sinceramente — e si comportano con lui come se il delitto e la lunga pena non ci fossero mai stati. Ma in otto anni sono accadute troppe cose che egli non sa e bisogna spiegargli. « E c'è il figlio che ho lasciato ragazzino — dice — ed ora è luì che ci mantiene tutti, è lui il capofamiglia ». E' cosi, e nessuno può farci nulla. L'uomo cerca lavoro e non trova, teme di essere di peso e si tormenta con questo pensiero: « Per loro era meglio quando non c'ero ». Dice la dott. Remi: « Abbiamo assistito mogli di detenuti venute dal Sud analfabete, abbiamo insegnato loro a leggere e a scrivere. Sono semplici. Si sono date da fare, hanno trovato posti perfino buoni. Il marito esce ed è rimasto analfabeta, questa inferiorità gli pesa, si sente decaduto. Un posto ci sarebbe: manovale in un cantiere. Lo rifiuta, perché meno qualificato di quello della moglie e perché meno retribuito. Aspetta di meglio. Intanto perde le giornate tra i biliardi di un locale di dubbia fama al quartiere Baggio, gli stanno attorno malfattori di mezza tacca.
E quelli che trovano lavoro ma non ce la fanno, perché l'orario è troppo pesante? L'orario è lo stesso degli altri operai, ma chi ha vissuto cinque o sette anni nell'ozio di una cella, dove le trova le energie fisiche, psichiche e morali che hanno gli altri? Allora va dal direttore e gli dice: «Mi riduca la paga e mi riduca l'orario, altrimenti non posso continuare». Un altro ha perso il posto perché beveva. Lo avevano appunto arrestato poiché si ubriacava con monotona regolarità e picchiava la moglie. In carcere è diventato sobrio per forza. Uscito, ha avuto lavoro, due mesi dopo è stato licenziato. Ora -si giustifica: «C'erano troppe difficoltà,-dove-'' vo bere qualcosa per trovare animo ». Mi dice un giovane: « Stia un po' a sentire. Ho avuto una sbandata, ho pagato, sono tornato libero. Un lavoro ce l'ho, nel negozio di mio padre. Sembra tutto a posto, ma non è così. Vorrei sposarmi, però non ho il coraggio di corteggiare una ragazza, perché prima o poi dovrei confessarle che sono stato dentro ».
Quelli che hanno fatto più anni di prigione dicono: «Esci e trovi che il mondo ti è cambiato sotto i piedi. La gente parla di cose che non capisci. Le ragazze hanno i calzoni e i giovanotti i capelli lunghi. La famiglia e gli amici sono troppo diversi ». Ma il vero guaio è che anche loro stessi sono troppo cambiati. Anni di vita in comune e regolata da un rigido orario li hanno deteriorati.
Quando sono entrati in carcere non erano — in genere — gli individui migliori della società. Anzi, la società li ha segregati perché erano deboli o mascalzoni o canaglie, erano violenti 0 amorali. Questo giovane di Cinisello Balsamo ha strappato una ragazza alla famiglia e l'ha avviata alla prostituzione, quell'altro di Greco ha «scippato » una vecchia che aveva riscosso la pensione. Erano ladri specializzati nel borseggio o nel furto con scasso, erano ricettatori o pataccari, ne ho conosciuto uno che legava il figlio al termosifone e lo frustava. La prigione li ha cambiati quasi sempre in peggio.
Mi ha detto il direttore di un carcere: « L'individuo chiuso praticamente giorno e notte in una cella, obbligato a una forzata convivenza e a promiscuità animalesche, è più facilmente portato a reazioni emotive o violente ». Oppure — per salvare un poco di personalità o nella speranza di qualche privilegio — impara a mentire, a simulare e dissimulare i suoi pensieri.
Così escono dal carcere e si trovano, con il fagottello della loro roba sotto il braccio, in un mondo che intanto' « gli è cambiato sotto i piedi ». Qualcuno riesce, altri falliscono. « Non è soltanto questione di fortuna — dice la dott. Renzi —. Chi fallisce è quasi sempre un disadattato sociale. L'importante è capirlo, scoprire quello che c'è di meglio in lui e tirarlo fuori. Il problema dell'assistenza agli ex carcerati è un problema umano, ma anche tecnico. Per comprendere chi è stato in prigione e aiutarlo a reinserirsi nella società, occorrono mezzi e personale specializzato ».
Sono alla « Associazione rinascita sociale» di Milano, che assiste ogni anno un migliaio di ex detenuti e famiglie dì carcerati. Gli enti locali danno un contributo di tre milioni all'anno, poi c'è qualche aiuto di privati, ma poca cosa. Tre milioni soltanto, mentre dieci sarebbero ancora troppo pochi. Dice la dott. Renzi: « Ripieghiamo su assistenti sociali volontarie». Questo a Milano, la città più ricca e una delle più generose. Nelle altre città la situazione è la stessa od è peggiore.
La Stampa 17 maggio 1969