Il sindaco di Alessandria Felice Bergoglio e altri diciannove cittadini hanno firmato un esposto al giudice istruttore genovese Pier Giuseppe Petrillo, il quale sta concludendo le indagini sulla “strage” avvenuta il dieci maggio dell'anno scorso nel carcere di Alessandria: l'esposto è, in pratica, una richiesta di indagini più approfondite sui tragici fatti e una valutazione “differente” delle responsabilità di chi, materialmente, dette l'ordine alla polizia e ai carabinieri di irrompere nel carcere per liberare gli ostaggi e catturare i detenuti ribelli. Il documento, otto cartelle dattiloscritte, è però sostanzialmente un atto di accusa nei confronti del procuratore generale Reviglio della Veneria e del generale dei carabinieri Dalla Chiesa che disposero l'azione: le argomentazioni, esposte succintamente, si basano sulle testimonianze di molti presenti ai fatti e sulle relazioni apparse in quei giorni su diversi quotidiani.
Il sindaco di Alessandria e gli altri firmatari del documento, dopo aver premesso che da tempo correvano “voci” sempre più consistenti nel carcere d'un progetto di evasione, chiedono al magistrato di chiarire perché non vennero perquisiti Concu e Di Bona, due dei detenuti protagonisti della vicenda, i quali “dopo aver da tempo disertato le lezioni scolastiche si recarono per la prima volta in aula il giorno 9 maggio, portando con sé borse legali nelle quali avevano riposto le armi”. Dalle argomentazioni esposte al magistrato genovese emergono le modalità dell'assalto e le motivazioni che spinsero il procuratore generale e il generale dei carabinieri a disporlo. Si afferma che l'attacco fu “imprudentemente” preceduto dal lancio di candelotti lacrimogeni all'interno del locale dove i detenuti asserragliati trattenevano gli ostaggi. Nel documento si aggiunge: “L'assalto si arrestò contro un cancello metallico che nessuno in precedenza si preoccupò di fare aprire benché fosse perfettamente raggiungibile. Anzi è risultato che, rotto un vetro della porta, sarebbe stato sufficiente introdurre una mano aprendo la serratura dall'interno dove c'era la chiave. Ciò è confermato da una dichiarazione resa dal procuratore generale Reviglio della Veneria in una intervista a "Nuova società" (N. 48 15-1-1975), ciò consentì agli evasi di ritirarsi nel gabinetto della infermeria dando loro tempo di trascinarvi ad uno ad uno gli ostaggi salvo due che in tale occasione riuscirono a fuggire”.
Nel documento, inoltre, si contesta la versione data ai giornali dal procuratore Reviglio della Veneria sulla morte degli ostaggi: il magistrato, dopo la conclusione sanguinosa della vicenda, dichiarò che la signora Graziella Giarola fu trovata dagli agenti morta “già fredda”. In sostanza, secondo della Veneria la donna era stata trucidata prima dell'intervento del “commando” liberatore - quindi era necessario intervenire per impedire che tutti gli ostaggi fossero massacrati. “Ciò risulta - è ribadito dal sindaco di Alessandria - in netta contraddizione con le testimonianze degli ostaggi che concordemente affermano che sia la signora Giarola, sia gli agenti di custodia Cantiello e Gaeta vennero uccisi dopo l'inizio dell'assalto”. Nell'esposto si accenna ad una dichiarazione del capo della Criminalpol del Piemonte, Nino Montesano, il quale avrebbe ammesso che un primo progetto di far uscire detenuti e ostaggi e quindi di far entrare in azione i tiratori scelti, fu abbandonato perché i rivoltosi avevano legato i prigionieri con delle bende, in modo da impedire ogni possibilità di fuga perché si sarebbero strozzati l'uno con l'altro. “Quale era allora il "vero" piano per liberare gli ostaggi? Ci si chiede nel documento: l'irruzione oppure la finta trattativa con l'impiego dei cecchini?”.
La Stampa 21 febbraio 1975