Quanto accaduto la scorsa settimana nella prigione-modello di Albany ed in altre carceri d'Inghilterra dimostra, una volta di più. che agitazioni e rivolte dei detenuti non sono un fenomeno solamente italiano. Ma, soprattutto, contribuisce a sfatare il mito delle cosiddette carceri-modello, già duramente scosso dai fatti verificatisi a Rebibbia sul principio dell'estate. Se persino ad Albany e a Rebibbia le tensioni, anziché scaricarsi, si accumulano, è chiaro che per risolvere adeguatamente i problemi penitenziari non basta preoccuparsi degli aspetti organizzativi e delle questioni edilizie. Senza contare che, su questa strada, non sarà mai dato di spingersi al di là di certi limiti: invero, anche se l'essenza di ogni pena detentiva è costituita dalla perdita di quel massimo fra i beni individuali che è la libertà personale, nessun carcere potrà mai trasformarsi in una sorta di casa-albergo fornita di tutte le comodità moderne.
Bruciante passivo
Il vero problema ha per oggetto l'uomo, come valore da recuperare, come individuo da responsabilizzare, come essere da rieducare (o, magari, da educare per la prima volta). Certo, non ci si può illudere che tutti gli autori di reato siano in pratica recuperabili; comunque, il tentativo va compiuto sino in fondo, senza eccezioni. Non manca neppure un motivo di tipo utilitaristico, e per ciò meno nobile, ma più concreto: visto che, prima o poi, scontata la pena od ottenuta la grazia, il detenuto uscirà di prigione, sarebbe nello stesso interesse altrui che egli ne uscisse in qualche modo migliorato. Oggi, la frustrazione, l'avvilimento e le suggestioni negative che aleggiano nell'atmosfera delle nostre carceri, lungi dal causare miglioramenti si traducono molto spesso in una spinta verso un'ulteriore degradazione. Che, alla base delle agitazioni e delle rivolte, ci sia di solito uno stato d'animo di esacerbata disperazione, è provato dalla circostanza inconfutabile che queste sommosse si concludono sempre allo stesso modo, cioè con pieno discapilo per i detenuti: sanzioni disciplinari, trasferimenti, minor disponibilità di locali, maggiori controlli, denunzie all'autorità giudiziaria, quando non addirittura, come purtroppo accaduto in agosto nella sezione minorile del carcere di Trieste, la morte di qualcuno Ira loro. Solo la esasperazione può suggerire iniziative destinate a risultati di cosi bruciante passivo per chi le mette in essere. La questione non sta. dunque, nell'alternativa tra l'adozione di una linea dura, ovvero della mano di ferro, e l'adozione di una linea tollerante, ovvero della mano morbida. La prima, impregnata di violenza (ce ne già tanta), può servire a ben poco nei confronti di gente che ha niente o quasi niente da perdere: la seconda, di tipica impronta paternalistica, rimane alla superficie delle cose, lasciando i detenuti in balia di se stessi, senza criteri precisi, cosi da provocare equivoci e confusioni, oltre ad un pericoloso lassismo.
La paga ai detenuti
Il cammino da percorrere è un altro, teso alla ricerca degli strumenti ed all'attuazione dei metodi più idonei per far riaffiorare i valori umani spenti o inariditi negli animi dei veri colpevoli e per salvaguardare i medesimi valori negli animi dei non colpevoli (di errori giudiziari ce ne sono sempre stati). Anche se l'impresa non è facile, specialmente nei coni rotiti dei primi, nulla va trascurato perché il loro più o meno prossimo ritorno in libertà, non precluso neppure ai condannati all'ergastolo, avvenga in condizioni di sufficiente adeguatezza. In linea di principio, si tratta di abituare o riabituare ogni detenuto ali adempimento dei propri doveri e al regolare esercizio dei propri diritti, sottraendolo alla tentazione di ricadere un'altra volta nel delitto o. peggio, di riprendere una già lunga consuetudine con esso. Ecco perché il carcere, a parte le varianti rese indispensabili dalla sua natura di sanzione, dovrebbe riprodurre nei limiti del possibile le linee della normale vita sociale, imperniata sullo studio e sul lavoro debitamente retribuito. In Italia continuiamo a tre-.arci agli antipodi di tutto questo, con le conseguenze che si vedono ogni giorno specie per quanto riguarda i fenomeni della recidività e dell'abitualità a delinquere da parte di molti ex detenuti, che finiscono così per ritornare, spesso a brevissima scadenza, nei luoghi di pena dopo un'esperienza di libertà malamente vissuta. Una recente ordinanza del tribunale di Pisa, con l'autorevolezza e l'imparzialità che dovrebbe essere propria di ogni provvedimento giurisdizionale, richiama l'attenzione su alcuni aspetti assolutamente negativi dell'ordinamento penitenziario, per lungo tempo invano denunciati da molte voci sinora considerate avveniristiche o, addirittura, tendenziose. Sono sufficienti poche cifre a smentire le accuse di avvenirismo e di tendenziosità. Come sottolinea il tribunale di Pisa, il nostro Stato dà lavoro soltanto ad una piccola parte dei detenuti (secondo una statistica piuttosto accurata, si arriverebbe sino ad una quota del dieci per cento) ma. anche per quei pochi che ne fruiscono, il lavoro si risolve nell'affidamento di mansioni umilissime, spesso avvilenti, e comunque non certo qualificanti. Mettere insieme interruttori elettrici, avvitare bulloni, cucire gli orli di un abito non sono attività che consentono un affinamento tecnico e nemmeno l'acquisizione di un mestiere su cui impostare la propria vita post-carcere. Specie in un'epoca tecnologicamente molto movimentata, un lungo periodo di detenzione può significare, al momento della scarcerazione, una definitiva messa fuori gioco dagli ambiti professionali persino per coloro che già fossero in possesso di un loro buon mestiere. In ogni caso, la retribuzione del lavoro e minima, anzi, irrisoria: dal r gennaio 1972, la mercede è stata portata a livelli oscillanti tra le 700 c le 900 lire giornaliere, da cui lo Stato detrae a proprio favore una quota fissata dalla legge in misura che va dall'uno ai quattro decimi a seconda della situazione giuridica del detenuto.
Ritorno al delitto
Quindi, guadagni esigui per i pochi che hanno il privilegio di poter lavorare e nessun guadagno per tutti gli altri, costretti per giunta ad un ozio completo, che è la causa sicura di pessime meditazioni e di abitudini controproducenti per il domani, quando non dia luogo sinanco ad una regressione psichica il cui sbocco inevitabile diventa il manicomio. Eppure molti, moltissimi detenuti avendo famiglia o persone a carico, avrebbero assoluto bisogno di guadagnare qualcosa per dare un aiuto a chi non ha altra colpa che quella di essere parente di un detenuto, senza possedere altre fonti di sostentamento. Ma non basta: poiché lo Stalo addebita le spese di mantenimento in carcere ad ogni detenuto, abbiente o non abbiente, nella misura di 320 lire al giorno, a pena finita la scarcerazione sarà seguita, prima o poi. da un'intimazione dell'Erario a versare in contanti la somma dovuta nel termine di 15 giorni. Ciò accade proprio men| tre l'ex detenuto si trova ad j affrontare il drammatico problema dell'attuale suo sostentamento, in un ambiente che gli è ostile per la diffidenza e le prevenzioni che rendono Sempre estremamente arduo il reinserimento nella vita lavorativa e sociale, egli si sente oppresso come da una persecuzione: deve infatti registrare ancora efIetti dolorosi della pena che ha scontato, e spesso l'unica necessitata soluzione è il ritorno al delitto. Queste non sono nostre parole, le abbiamo ricavale sia dall'ordinanza del tribunale di Pisa, sia dalla relazione al disegno di legge per un mioI vo ordinamento penitenziario. E vale come la miglior conferma dell'assoluta urgenza di una radicale riforma, ispirala a questi principi basilari.
Giovanni Conso - La Stampa 5 settembre 1972