Martedì 5 marzo Michaël Chiolo, un detenuto radicalizzato del carcere di alta sicurezza di Alençon - Condé-sur-Sarthe, nel nord della Francia, ha ferito gravemente due guardie penitenziarie con un coltello di ceramica. Secondo le autorità d’Oltralpe, l’uomo avrebbe urlato “Allahu akbar”1 durante l’aggressione e avrebbe avuto l’intenzione di vendicare la morte di Chérif Chekat, il responsabile dell’attacco jihadista a Strasburgo dell’11 dicembre 2018. Convertito all’Islam, Chiolo si sarebbe radicalizzato in carcere e proprio in carcere avrebbe conosciuto e frequentato Chekat. La ministra della Giustizia francese ha confermato la natura terroristica dell’attacco.2
Questo episodio drammatico porta di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica il fenomeno della radicalizzazione jihadista in carcere, da anni una questione critica in tutta Europa, e non solo.
Come è noto, una delle principali preoccupazioni è costituito dal rischio – purtroppo già tramutatosi più volte in realtà – che soggetti radicalizzati possano indottrinare e mobilitare altri detenuti “comuni”. In effetti, l’esperienza della reclusione può persino diventare una sorta di opportunità per proseguire la propria “lotta” estremistica, facendo, per così dire, di necessità virtù.
In generale, i processi di radicalizzazione possono chiaramente essere favoriti in un contesto particolare come quello carcerario, che spesso è già caratterizzato da frustrazioni e risentimenti personali, condizioni di vulnerabilità ed emarginazione sociale e rigidi vincoli e limitazioni istituzionali.
Le motivazioni che possono innescare una trasformazione dei sistemi di credenze e dei comportamenti di un detenuto, incluso un processo di radicalizzazione jihadista, sono varie e possono comprendere ricerca di significato e identità, desiderio di sfidare le autorità o il sistema in generale, ma anche bisogno di protezione fisica.3
Oltretutto, eventuali problemi di carattere organizzativo in prigione possono aggravare i rischi di radicalizzazione. Tali criticità possono interessare tutti i detenuti in generale (ad esempio, sovraffollamento, carenza di risorse umane e finanziarie, ecc.), ma anche – per quanto in modo non intenzionale – i detenuti musulmani nello specifico, tanto più se stranieri (per esempio, eventuali limiti nella preparazione culturale del personale penitenziario e/o difficoltà nella gestione delle esigenze legate alla pratica religiosa4).
Come delineato in una recente analisi ISPI,5 il problema della radicalizzazione jihadista in carcere riguarda anche l’Italia, per quanto su scala minore rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale come la Francia e il Regno Unito.
In generale, secondo gli ultimi dati ufficiali (aggiornati al 28 febbraio 2019), in Italia i detenuti sono 60.348,6 distribuiti in 190 strutture penitenziarie. I detenuti stranieri sono 20.325, ovvero circa un terzo del totale (33,7%) e le nazionalità più rappresentate sono, in ordine decrescente: Marocco (3.762 detenuti), Albania (2.594), Romania (2.534), Tunisia (2.047) e Nigeria (1.588).
Prendendo in considerazione i Paesi di origine, è possibile stimare che più di un detenuto su cinque possa essere di fede musulmana. Secondo la Relazione del Ministero della Giustizia del 2018, tra i detenuti di origine musulmana, “7.169 sarebbero ‘praticanti’”, ossia effettuavano la preghiera attenendosi ai principi della propria religione. Tra questi musulmani “praticanti”, 97 rivestivano la figura di imam, conducendo la preghiera, 88 si erano posti in evidenza come “promotori” (ovvero si erano proposti, nei confronti della Direzione del proprio istituto penitenziario, “come portavoce o paladini delle istanze degli altri detenuti”) e 44 si erano convertiti all’Islam durante la detenzione.8
La ricerca sulla radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane è ancora piuttosto limitata. Tuttavia, la minaccia potenziale appare seria anche nel nostro Paese, specialmente negli ultimi anni. Basti ricordare, per esempio, che Anis Amri, l’autore del grave attacco terroristico al mercatino di Berlino del 19 dicembre 2016, aveva avviato il suo percorso di radicalizzazione jihadista proprio nelle carceri siciliane, dopo esser stato condannato alla reclusione per reati non legati all’estremismo. Un anno fa la Relazione Annuale 2017 del sistema di intelligenceitaliano confermava autorevolmente che gli istituti carcerari rappresentano “fertile terreno di coltura per il “virus” jihadista, diffuso da estremisti in stato di detenzione”.
L'ultima Relazione del Ministro della Giustizia sull’Amministrazione penitenziaria, pubblicata poche settimane fa, contiene nuovi interessanti dati a questo riguardo.
Innanzitutto, il documento segnala che, alla data del 18 ottobre 2018, risultano essere presenti 66 detenuti imputati e/o condannati per reati afferenti al “terrorismo internazionale di matrice islamica” e specifica che costituiscono “il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”.
Questi soggetti sono inseriti in uno dei tre circuiti di Alta Sicurezza (AS) istituiti nel 2009, l’AS2, riservato a “soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza”. Nel complesso, i detenuti ascritti a questo circuito, includendo anche i soggetti reclusi per terrorismo interno (di estrema sinistra, di estrema destra e anarchico), risultano 94.
Attualmente sono dislocati presso apposite sezioni degli istituti penitenziari di Rossano (CS), di Nuoro e di Sassari, mentre una sezione femminile è presente presso la Casa circondariale dell’Aquila, con due detenute presenti.