I giudici del Tar respingono il ricorso contro i due mesi senza stipendio per un post. Inutile il tentativo di dare la colpa alla compagna Non solo aveva festeggiato su Facebook il suicidio di un detenuto ("Uno di meno") ma quando il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria lo ha sospeso dal servizio per due mesi, ha ritenuto il provvedimento ingiusto e ha presentato ricorso al Tar. I giudici amministrativi hanno però respinto la richiesta di un ispettore del corpo di Polizia Penitenziaria che all'epoca prestava servizio nel carcere di Marassi.
Anzi, per la precisione all'epoca - eravamo nel 2015 - era distaccato a Roma per l'esercizio di un incarico sindacale. I giudici hanno respinto anche la banale motivazione con cui l'ispettore ha tentato di farsi annullare la sanzione: ha sostenuto che quel post fosse stato scritto non da lui ma dalla compagna che accedeva al social network con le sue credenziali sulla pagina Facebook riconducibile ad un'altra sigla sindacale era stata pubblicata la notizia della morte per suicidio di un detenuto nel carcere milanese di Opera.
Dei molti, troppi, vergognosi post comparsi sulla pagina, si era scoperto che almeno 16 provenivano dalle pagine di agenti della penitenziaria che erano stati tutti sospesi dal ministro Andrea Orlando. Il disperato tentativo di scaricare sulla sua convivente la responsabilità del post è stato seccamente respinto dai giudici: "Tale prospettazione, seppure suffragata da una dichiarazione sottoscritta dalla pretesa autrice della frase in questione, non appare del tutto convincente in quanto, nonostante le spiegazioni fornite, non sono chiare le ragioni che avrebbero indotto la compagna a "visitare" la pagina Facebook di una sigla sindacale della Polizia Penitenziaria, mentre i motivi di interesse del ricorrente sono resi pienamente evidenti dalla sua attività professionale e sindacale.
In ogni caso, anche volendo ammettere la fondatezza della proposta ricostruzione fattuale, essa non varrebbe ad escludere la responsabilità del dipendente in ordine all'episodio contestato. Come correttamente rilevato dall'Amministrazione, infatti, la circostanza che le credenziali del ricorrente fossero state comunicate ad una terza persona implicava l'autorizzazione all'accesso al suo profilo Facebook. Il commento "postato" con il profilo dell'ispettore, pertanto, non può ritenersi frutto di un accesso abusivo, né risulta che fossero stati violati in qualche modo i limiti dell'autorizzazione concessa dal titolare del profilo informatico, il quale, prima dell'avvio del procedimento disciplinare, non ha comunque ritenuto di doversi dissociare dal commento medesimo". Il Tar conclude respingendo il ricorso e confermando la sanzione disciplinare: "a fronte dell'obiettiva gravità della condotta del ricorrente, non può certo ritenersi che l'azione disciplinare sia stata alimentata dall'esclusiva volontà di porre rimedio al discredito cagionato dai commenti immorali postati da alcuni appartenenti al corpo di Polizia Penitenziaria, sicché il dedotto sviamento di potere è frutto di mera illazione".
La Repubblica