La mafia social. Forse è questo l'elemento che più colpisce nel rapporto semestrale della Dia (Direzione investigativa antimafia) al Parlamento. Non è che prima di questo rapporto non fosse stata analizzata dagli esperti la presenza anche di appartenenti alle mafie sui social, ma ora questa novità viene strettamente legata ad un altro dato: la "giovanilizzazione" delle mafie, un abbassamento drastico dell'età in cui si diventa mafiosi, cioè membri a tutti gli effetti di una élite criminale, e il rapido superamento di una serie di tappe lungo una carriera il cui approdo (un tempo) non era riservato a tutti i delinquenti ma solo a chi si era attenuto a determinati comportamenti codificati in una lunga e storica "sapienza" mafiosa.
E se i mafiosi vengono reclutati sempre più in un'età in cui prima si poteva tutt'al più aspirare ad esserlo, i giovani portano nell'universo mafioso le novità e l'identità del loro tempo, cioè l'uso di internet, di Facebook, di Instagram, di Twitter e quant'altro appartiene al linguaggio della loro generazione. E si sa che la giovane età è più esposta alla vanità, all'esibizione anche virtuale della forza, al mettersi in mostra, dando spazio ad una specie di "estetica della violenza" come efficacemente l'ha definito Marcello Ravveduto.
Se prima un mafioso comandava anche con i silenzi, con gli sguardi, con il detto e il non detto, con le allusioni e i doppi sensi, oggi il medium digitale diventa uno strumento abituale per il giovane appartenente che, da questo punto di vista, intacca uno degli elementi d'identità dell'essere mafioso: la segretezza e la riservatezza.
"Virtù" criminali, queste di un tempo, che non erano solo necessitate dal non esporsi all'azione repressiva delle forze dell'ordine e della magistratura, ma erano anche perseguite per distinguersi dalla criminalità comune. Da questo punto di vista si può dire che i clan di camorra stanno facendo scuola nel mondo mafioso: reclutamento di giovanissimi senza seguire uno specifico e selettivo percorso criminale, appartenenza poco discreta, uso massiccio dei social. E se questa modalità viene seguita anche dalle più strutturate mafie siciliane e calabresi, ciò dimostra come l'arcaico possa farsi moderno, e come strutture impermeabili e coese possano aprirsi alla contaminazione contemporanea senza perdere la loro forza e la loro pervasività. Infatti, le mafie godono ancora di ottima salute. In fondo questa semplice verità ci conferma il rapporto della Dia.
Il ricorso a giovanissimi dimostra sì che le file mafiose si sono allentate dopo la repressione massiccia degli ultimi decenni sia nei territori di vecchio insediamento sia nei nuovi domini del Centro-Nord (di cui anche il Veneto comincia a far parte) ma anche che il recinto di nuovi reclutamenti si sta facendo più ampio e tocca zone e ambienti sociali non tradizionali. Non si nasce mafiosi ma oggi lo si può diventare più facilmente, più immediatamente e in territori più estesi rispetto a qualche anno fa. Se i mafiosi cambiano e si rinnovano spinti dalla repressione, trovano sempre nuove disponibilità e nuove adesioni. Se un giovane sente il bisogno di essere qualcuno, e non possiede il talento adatto nell'universo legale, la violenza si dimostra sempre più una buona risorsa e una ottima opportunità.
E se prima questa opportunità illegale la trovavi sotto casa, nella tua stessa famiglia o nel tuo stretto giro di amicizie, oggi il campo si è allargato. La repressione sembra solo inseguire ciò che avviene nella società, e quando è efficace apre la strada a nuove leve. Così ci accorgiamo di essere impreparati ad evitare che le fila criminali scompaginate da un'inchiesta ben condotta possano ricomporsi. Bravi ormai nella repressione, attrezzati nell'usare meglio tutto l'armamentario legislativo messo in piedi in questi anni, preparati anche ad usare bene tutti i mezzi che le nuove tecnologie ci forniscono sul fronte investigativo, ma totalmente impreparati di fronte ad un grande tema: come impedire che si riformi l'esercito di riserva che va a sostituire quello decimato sul fronte criminale?
Non abbiamo risposte a questo interrogativo, anzi non ce lo poniamo più. La nostra società alle prese con le mafie non è in grado di prevenire. Punto. Che le scuole avviino progetti di educazione alla legalità è un segno che una parte della società reagisce (ma andare a scuola regolarmente è già di per sé una mezza assicurazione contro quel mondo); che le associazioni di volontariato si muovano sul territorio è utile per dimostrare quanti passi avanti sono stati fatti nel limitare il consenso passivo.
Ma se la realtà si scontra con gli insegnamenti, se le parole si scontrano con i fatti, se non c'è corrispondenza tra pensare e poter fare, allora la pedagogia della violenza e del sopruso farà sempre nuovi proseliti. I nuovi mafiosi, giovanissimi, recitano una parte che spesso gli calza a pennello. Si esercitano a fare i boss, cercano visibilità.
Imbracciano fucili e telefonini, corrono sui motorini e sul web. Nulla di strano: sono giovani e moderni, hanno la tv al plasma, la play station e i social network. Comunicano con il mondo come il mondo comunica con loro perché sono dentro al mondo. Non sono qualcosa di esterno ad esso. "Camorra per la vita" è quello che nel 2016 scrivevano i "barbudos" di Ponticelli che si facevano fotografare con tatuaggi con cui inveivano contro le forze dell'ordine e non facevano mistero della loro idea di vita.
Una vita del tutto e subito, dell'oggi ci sono e domani no, del prendo ora e poi si vedrà. E purtroppo non sono confortanti i dati della giustizia minorile nonostante l'azione generosa di tanti magistrati e operatori. Quelli che sono stati "messi alla prova", cioè hanno visto annullare la pena con un impegno a studiare o a imparare un lavoro, tornano da adulti nel circuito criminale e penale.
Quasi la metà di essi sono recidivi, da adulti fanno quello che facevano da ragazzini. Giovanissimi che tornano nel mondo del crimine appena abbandonano quello della legalità forzata, perché la realtà fuori è altro. Fuori ci sono paranze da onorare, gruppi criminali in cui contare, mondi criminali che includono. Gli esclusi non sembrano loro. E sarà così finché non si farà della prevenzione un uso capillare e consapevole. Da questo siamo ancora lontani. Anzi non abbiamo ancora cominciato.
Il Mattino