La Giustizia contestata Nessuno è soddisfatto di come funziona in Italia - I magistrati più ottimisti denunciano la povertà di mezzi, la cattiva organizzazione, l'inerzia del Parlamento nel rivedere le leggi - I più severi affermano che la vera causa del male sta nei nostri codici: invecchiati, «borbonici», riflettono la società del passato - Così accade che un ladro di galline sia punito più dei grandi sofìsticatori, e che la pena distrugga il detenuto invece di redimerlo.
Un'annata amara s'è aperta per la giustizia: da un capo all'altro d'Italia, invece di celebrarli! nel giorno del suo genetliaco, la contestano con furore e sono proprio molti dei suoi sacerdoti — e non dei peggiori — a farsi sulla soglia del tempio per mostrarci i tabernacoli vuoti. Negli anni dell'immediato dopoguerra, Francesco Carnelutti parlò di « morte del diritto »; ma poiché Carnelutti amava i paradossi, le due cattedrali del rinvio, il Parlamento e il Palazzo di Giustizia, ci giocarono sopra e fecero a gara per rimettere ai posteri quest'essenziale problema che investe le fondamenta stesse di uno Stato moderno: anzi, ne costituisce l'idea animatrice, il motivo più alto che giustifica la sua esistenza.
« Noi non vogliamo che questo Palazzo divenga un rudere inutile », ha detto il senatore Terracini, uno dei padri delia Costituzione italiana, l'altro giorno, parlando a Roma all'assemblea dei e. contro-inauguratori a che si svolgeva al pianterreno del « Palazzaccio ». In quello stesso momento, al piano di sopra, il procuratore generale Duni teneva il suo rapporto alle massime autorità dello Stato e alla assise delle toghe d'ermellino nel corso di una cerimonia pittoresca e struggente. E' struggente assistere a un concilio di venerabili patriarchi d'una religione rinnegata dai fedeli. Della giustizia non restano dunque che pennacchi e scartoffie dentro il dedalo di corridoi solenni e interminabili dentro i quali il cittadino si smarrisce? (Vi si smarrì, l'altro ieri, anche il presidente del Consiglio, giunto a piedi al « Palazzaccio », solo e pensoso: infilò un ingresso sbagliato e per poco non fallì l'incontro con l'assise degli inauguratori).
Le risposte a questi interrogativi sono differenti e opposte. Se si ascolta il « grido di dolore » dei procuratori generali, la bilancia della giustizia è solo arrugginita, la sua spada che separa il giusto dall'ingiusto è solo mozzata dall'inerzia del legislatore. Ma se ascoltiamo anche le altre voci che si alzano dagli ambulacri del tempio non è proprio la lentezza della « macchina » il male peggiore: non sono le àule decrepite, né le seggiole spagliate, né i « vuoti » di potere legislativo, né l'organizzazione strampalata del potere giudiziario.
C'è anche questo, sì. C'è l'iniquità istituzionale delle, sentenze che non arrivano mai, ma qui il rimedio potrebbe essere trovato nello sveltimento meccanico del lavoro con il ricorso, magari, ai cervelli elettronici per il sollecito reperimento delle norme e dei « precedenti ». La crisi della giustizia, però, con questo non sarebbe risolta. Anzi: si rischierebbe il peggio e l'irrimediabile, perché se oggi le decisioni più urtanti (ì diciotto mesi di carcere al ladro di tre mele, per fare un esempio) rappresentano un caso limite, degno d'essere riportato dai giornali, domani, con i moltiplicatori della produzione giudiziaria potrebbero diventare un fatto quotidiano.
La gravità della crisi è nel fatto che i codici scoppiano in mano a coloro che li debbono applicare. Pezzo per pezzo, comma dopo comma. La nozione del giusto e dell'ingiusto è in parte cambiata, ma i giudici hanno a disposizione solo il gran libro del dare e dell'avere ricevuto in eredità dal legislatore di un'altra Italia, che aveva una diversa società e quindi diversi timori e diversi criteri che la ispiravano nel proteggersi. Eravamo un paese ad economia prevalentemente agricola, siamo diventati un paese industriale. Tuttavia, il furore con cui il codice persegue il ladro di mele o dì galline è rimasto immutato.
Per questo, qui a Bologna, nell'assemblea (contestata) di « Magistratura democratica» che s'è tenuta ieri in un'aula del Palazzo di Giustizia, preludio all'inaugurazione ufficiale di oggi, è scoppiato improvviso un battimano dì simpatia all'indirizzo dèi ladri di gattine: L'aveva rievocati uno degli oratori, un avvocato, esprimendo lo sdegno suo dì cittadino e di operatore del diritto al vedersi ogni mattina sfilare dinanzi l'umiliato drappello dei ladruncoli, trasportati in catene, sul carrozzone carcerario, dalle vicine prigioni di San Giovanni in Monte al Palazzo di Giustizia per esservi giudicati. Il ladro di galline. dunque, assunto a simbolo e incarnazione vittimale d'una giustizia che sbaglia ì pesi, che adopera male la sua bilancia.
Un articolo di codice, logico — forse — nell'Italia rustica di trenta, cinquant'anni fa, diventa assurdo nell'Italia d'oggi che dal pollai e dagli allevamenti industrializzati di bestiame ha ben altro da temere che non le insidie del ladruncolo di mano svelta. Ma sono centinaia le pagine dei quattro codici che aspettano da decenni la revisione critica alla luce del pensiero e della coscienza moderna.
La colpa delta mancata revisione, si sente ripetere, è della classe politica. Ma. proprio perché «troppo facile», questa risposta non soddisfa. Qui a Bologna, ieri, i giudici di « Magistratura democratica » mi facevano rilevare un passo del messaggio di Capodanno del presidente Saragat agli italiani, là dove smaschera l'ipocrisia di quanti vorrebbero riversare sul Parlamento la causa di tutti i mali: « Hanno responsabilità politica tanto i dirigenti delle aziende, quanto i direttori degli strumenti d'informazione di massa, tanto i magistrati che giudicano nelle aule quanto i docenti ,che nelle scuole impartiscono insegnamenti ai giovani, tanto i liberi professionisti quanto i pubblici funzionari, tanto gli intellettuali quanto i direttori di coscienze... ».
Non di soli senatori e deputati è fatta la classe politica e se ciascuno deve caricarsi d'una responsabilità pubblica, i magistrati bolognesi della pattuglia più avanzata hanno deciso di mettersi al lavoro senza sommosse e senza aspettare le decisioni del Parlamento, ma anticipandole in forme pacifiche e legittime. In che modo? In primo luogo, mandando uno per uno tutti gli articoli dei codici in vigore a passare l'esame davanti alla Corte Costituzionale e non soltanto alla luce dei soliti cinque o sei princìpi che s'invocano ritualmente ad ogni apertura di udienza, ma per esempio alla luce dell'art. 3 della Costituzione: « E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del Paese».
Analizzando questo articolo, i giudici di « Magistratura democratica » sperano di farne sprigionare tanta forza da bruciare i reliquati dì sadismo repressivo e diborbonismo culturale che affiorano dai nostri codici. A cominciare dalla misura sovente eccessiva delle pene, per finire all'essenza stessa del castigo. « Noi che visitiamo le carceri e che ascoltiamo 1 detenuti, e vediamo in qual modo sono umiliati dalle persone, dai regolamenti, dalle cose stesse che li circondano, ci domandiamo se tutto questo non serva a fabbricare degli autentici delinquenti. Altro che "rimuovere gli ostacoli".
Altro che "recupero" del condannato. E se. allora, noi sappiamo questo, come possiamo mandare un giovane ladro in carcere per tre anni, nell'ipocrita illusione che ne esca recuperato alla società? ».
L'anno zero della Giustizia s'apre, dunque, con la promessa di una vasta obiezione di coscienza da parte dei giudici nei confronti dei codici. E' vero che i vecchi tabernacoli sono vuoti. E' vero però anche che la ricerca di contenuti nuovi è incominciata, senza bisogno di alzar barricate, ricorrendo ad un principio costituzionale che non era mai caduto dai nostri regolamenti. Era, soltanto, scritto così in alto che quasi non lo si leggeva più.
La Stampa 12 gennaio 1969