Diciannove dei 50 imputati si sono presentati al dibattimento con bende e cerotti (i carabinieri feriti sono 14) - Il presidente per evitare nuovi disordini ha proibito che ai detenuti fossero tolte le manette: per protesta, 27 hanno chiesto di rientrare in cella.
Non fosse stato per la presenza massiccia dei carabinieri, più che nell'aula di un tribunale sembrava di essere capitati, stamane, nell'anticamera di un ambulatorio. Al primo piano del palazzo di giustizia di Pescara c'era infatti una lunga fila di uomini, chi con la testa incerottata, chi con i polsi avvolti nelle bende, chi con un braccio appeso al collo. Sapete già perché questi uomini, cinquanta in tutto, si sono buscate queste ammaccature: ieri mattina, sul finire della prima udienza del processo che li vede imputati per aver partecipato alla rivolta del luglio scorso nel locale carcere di San Donato, sono venuti alle mani con i carabinieri addetti alla loro scorta. Trentatré i contusi (le prognosi vanno da due a dieci giorni): quattordici sul fronte dei carabinieri, diciannove su quello dei detenuti.
Oggi, alla ripresa del processo, si sono temuti altri incidenti perché l'eventualità di un nuovo sussulto collerico non era davvero campata in aria. Invece, tutto è filato liscio o quasi e il processo ha potuto muovere i primi passi. Ci sono state soltanto intemperanze verbali che hanno coinvolto gli avvocati della difesa, una lunga ed enfatica dichiarazione pubblicamente declamata da un detenuto a nome dei compagni di pena, la volontaria uscita dall'aula di 27 dei cinquanta detenuti in segno di protesta contro la decisione del presidente di non far loro togliere dai polsi i ferri di sicurezza. Altre notizie di contorno: una ventilata azione penale da parte del pubblico ministero nei confronti di due avvocati della difesa, rei, secondo un rapporto dei carabinieri, di aver ieri «ostacolato le forze dell'ordine mentre cercavano di applicare i ferri ai detenuti che con violenza stavano aggredendo i carabinieri»; una preannunciata azione penale da parte di un settore del collegio di difesa nei confronti delle forze dell'ordine, accusate di aver ieri compiuto «una ingiustificata violenza contro cittadini imputati, percuotendoli, taluni a sangue, taluni al punto da far perdere loro i sensi».
Il pandemonio, ricordiamo, è scoppiato dopo che il presidente Mario Viscione aveva letto un'ordinanza con la quale il tribunale respingeva in blocco tutte le eccezioni preliminari sollevate dalla difesa, istanze di libertà provvisoria comprese. Dal plotone dei detenuti si sono levate grida di protesta («fascisti, assassini, boia»), il pubblico ministero Bruno Paolo Amicarelli ha ordinato lo sgombero dell'aula «anche con la forza», qualcuno ha alzato le mani (chi per primo?) ed è successo quello che è successo. Ora, le parti si scambiano le accuse, vanno alla ricerca delle responsabilità, soffiano nel fuoco delle polemiche. La cosa più probabile è che nel clima particolarmente arroventato dell'udienza di ieri, entrambe le parti abbiano perduto la testa: le impennate nascono sempre dalle passionalità del momento.
E passiamo alla cronaca di oggi, capitolo per capitolo. Il processo. In mancanza di aule capienti, il processo si svolge in un lungo corridoio del palazzo di giustizia. L'edificio è presidiato da non meno di duecento carabinieri e da un centinaio di agenti di polizia. I detenuti siedono su una doppia fila di panche, il presidente del tribunale dispone che non siano loro tolti i «ferri di coercizione» perché «sussiste il pericolo di fuga e di violenza». Le proteste. Lo staff della difesa è composto da dieci avvocati pescaresi e dal «Collegio nazionale di difesa», di cui fanno parte dodici avvocati dell'ultrasinistra che si richiama al Manifesto, a Lotta Continua, al Soccorso Rosso. Attacca per prima, a nome di questo gruppo, l'avvocato Bianca Guidetti Serra, di Torino, che spara con alzo zero contro il pubblico ministero per aver ieri ordinato l'impiego della forza nello sgombero dell'aula. «La scintilla degli incidenti — dice — è scoccata da quest'ordine: perché si è voluto agire con la violenza? Ora abbiamo chiesto la presenza al processo di un osservatore della Lega per i diritti dell'uomo».
Poi è la volta di altri avvocati del «collegio»: protestano per la faccenda dei ferri in aula che, sostengono, mortificano la personalità umana dell'imputato. Chiede la parola uno degli imputati, Francesco Bruni: «Signor Presidente, i ferri ai polsi non li voglio, piuttosto me li faccia mettere ai piedi. Se non può, mi rimandi in carcere». Le repliche. Il pubblico ministero non getta acqua sul fuoco. «E' vero — dice — che ho dato l'ordine di sgomberare l'aula anche con la forza ed è altrettanto vero che ripeterò Quest'ordine ogni volta che sarà necessario. E' cosa vergognosa che in aula non si sappia tenere un comportamento civile». Insorgono i patroni del «collegio», volano parole grosse, il presidente è costretto a intervenire per riportare la calma.
La pubblica dichiarazione. Uno degli imputati, Flavio Zoin, chiede e ottiene il permesso di leggere una lunga prosa, sottoscritta da tutti i suoi compagni di pena, che fa tanto comizio. Qualche brano: «Sarebbero ben altre persone quelle che oggi dovrebbero essere sul banco degli imputati in questo processo e cioè tutti quelli che sfruttano e uccidono il popolo italiano nelle fabbriche, nelle scuole. nei quartieri e nelle prigioni». «Prima o poi, siamo sicuri che il proletariato giungerà sicuramente a processare tutti i padroni, anche se essi sono duri a morire». E per finire: «Chiediamo l'abolizione della recidiva, della carcerazione preventiva, della chiamata di correo, dei reati di opinione. Chiediamo inoltre la riforma carceraria e dei codici, il diritto ai rapporti eterosessuali, amnistia e indulto per tutti. Alle nostre richieste vogliamo unire anche quelle delle altre carceri, come le "Nuove" di Torino». L'incidente. L'ora si fa tarda, il processo non va avanti, gli avvocati pescaresi si spazientiscono. Uno di loro, Vincenzo Mariani, ex sindaco democristiano della città, sbotta: «I colleghi di Pescara non intendono associarsi a queste castronerie».
Apriti cielo. Fra le toghe scoppia una bufera, tutti gridano, l'atmosfera si fa incandescente, ma non succede niente di grave. Ventisette detenuti si alzano in piedi e annunciano di aver deciso di tornare in carcere, come è loro diritto: non vogliono stare con i ferri ai polsi. Gli interrogatori. Dei ventitré detenuti che rimangono in aula, il presidente riesce a sentirne dieci. Gli altri saranno chiamati nella prossima udienza, lunedi. Nessuno ammette di aver partecipato alla rivolta, tutti si dicono innocenti. Ma allora, chi ha incendiato le celle, distrutto un intero «braccio» penale, danneggiato il materiale carcerario? Gli altri, hanno risposto nove dei dieci interrogati di oggi. Quali altri? Chiaro: quelli che hanno lasciato l'aula.
La Stampa 22 settembre 1973