”Gli stessi carcerati ci dicono che loro stanno meglio di noi. Nessuno di chi è fuori si rende conto di che vita sia quella dei secondini”. Chi parla è una qualsiasi delle 190 guardie carcerarle delle “Nuove”. Non vuole che si faccia il suo nome per paura di rappresaglie. Insieme coi colleghi sta cercando da tempo di organizzare un sindacato da affiancare a quello progettato per la polizia di tutta Italia. “Non vogliamo un nostro sindacato autonomo, ma entrare a far parte di un'organizzazione unica con gli altri agenti di P.S., I carabinieri, la Guardia di Finanza. Noi saremmo solo una delle quattro categorie. Quello della creazione di un sindacato sarebbe un primo passo verso la smilitarizzazione del corpo. Naturalmente tocca al ministero di Grazia e Giustizia di prendere provvedimenti, noi slamo troppo esposti”.
Il “secondino” delle “Nuove” racconta di intimidazioni molto gravi subite da tutti i suoi colleghi che sono stati sentiti parlare di sindacato: “Quando due anni fa abbiamo fatto lo sciopero della fame ci hanno denunciati tutti. Alcuni miei colleghi sono stati chiamati dal colonnello comandante che ha detto loro che, se non la piantano, lui li1 rovina e li fa finire al carcere militare per tutta la vita”.
“Noi non vogliamo far politica”, dice un altro agente. “Vogliamo solo partecipare come gli altri alla vita sociale. Chiediamo di lavorare 40 ore alla settimana come gli altri operai, di avere il riposo settimanale e vedere lo straordinario retribuito a parte, non imposto gratuitamente. Non possiamo neppure ammalarci: se stiamo a casa più di 5 giorni arriva un brigadiere e ci porta di peso all'ospedale. Tutto questo per uno stipendio, nei primi tre anni, che raggiunge a mala pena, tutto compreso, le 130 mila lire al mese. A Natale, un maresciallo capo come tredicesima ha preso al massimo 110 mila lire”.
La Stampa, 20 gennaio 1975