I direttori delle carceri occupano il ministero: protesta contro Ministro Gava che rifiuta il dialogo
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STORIA I direttori delle carceri occupano il ministero: protesta contro Ministro Gava che rifiuta il dialogo 25/06/1969 

In primavera avevamo visto i cancellieri in sciopero impedire i processi, i professori marciare in massa tumultuante sul centro di Roma, i doganieri chiudere di fatto le frontiere ed 1 funzionari dirigenti, aristocrazia dell'amministrazione pubblica, Investire Montecitorio e assediare Palazzo Chigi agitando cartelli del Movimento studentesco o del «Potere operaio».

Ieri, terzo giorno d'estate, mentre si mettevano in sciopero i dipendenti dei ministeri finanziari, dei musei e dell'Enpas, abbiamo assistito ad un nuovo passo nell'escalation della sfida allo Stato. I direttori delle carceri si sono mossi in corteo sul dicastero di Grazia e Giustizia e, non avendo trovato il ministro, hanno occupato l'edificio.

Occupazione simbolica, nell'intenzione degli stessi funzionari, e breve: è finita poco dopo mezzogiorno, all'ora degli spaghetti. Tuttavia il particolare folkloristico non attenua la gravità del gesto di rivolta. Patto eccezionale nelle proteste degli statali, i dirigenti delle carceri non sono in agitazione per ottenere aumenti di stipendio o vantaggi di carriera, ma per affrettare la riforma del regime penitenziario: chiedono migliori condizioni di vita per i reclusi ed un ordine più umano, che consenta di prevenire altri scoppi di furore nelle prigioni.

Ma né questa prova di disinteresse, né l'irritazione per la promessa delusa di un incontro con il ministro giustificano l'atto di rappresaglia e di minaccia. Dagli alti funzionari si ha il diritto di pretendere almeno un po' di rispetto per lo Stato e per la legge, ed un minimo di coerenza; eppure ai direttori delle carceri, preposti all'espiazione delle illegalità, custodi di una severa disciplina, è parso del tutto naturale compiere un gesto di sfida che è reato in.se stesso, e che nessun detenuto potrebbe tentare senza il rischio di gravi sanzioni.

E', fra tanti altri, un brutto segno. Gli scioperi dei funzionari, a scacchiera o totali, bianchi o ad oltranza, incidono in modo pesante sulla vita del Paese, e non si ha speranza che la catena s'arresti: placati i dirigenti, ora sono i gradi inferiori di tutte le amministrazioni a minacciare una « lotta più massiccia e duratura ».

L'erario è costretto a spese crescenti e non pianificabili: dai 480 miliardi offerti dal governo si è già passati a 700, e forse 800 o 900 non basteranno. Ma l'aspetto più inquietante è il carattere della lotta tra lo Stato ed i suoi dipendenti. Ormai nelle cronache quotidiane si impiega (e nessuno sembra meravigliarsi) la terminologia di guerra: ultimatum, offensiva, tregua, insurrezione,- resa.

E' un assalto metodico al prestigio, alle risorse, alla funzionalità, alle strutture di uno Stato che non sa difendersi, e deve capitolare. Qualche anno fa fece scandalo una «dimostrazione navale» compiuta da contrabbandieri napoletani davanti alle vedette della Finanza, per protesta contro la cattura di alcuni compagni.

Oggi ci sorprenderebbe, forse, solo un corteo di questori od un sit-in di diplomatici davanti alla Farnesina. E' vero che i politici troppo spesso sì decidono alle riforme soltanto per le pressioni di piazza e che la macchina pubblica per muoversi ha bisogno di scossoni. Ma dallo sfacelo dello Stato saremmo travolti tutti: nella depressione, nella anarchia e nella dittatura.

La Stampa 25 giugno 1969


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