Di me sapete che amo i gatti, la buona tavola, il buon vino. Ciò che ignorate invece, è che la mia vita non è solo mestoli, fusa e degustazione; io indosso anche la divisa blu notte della Polizia Penitenziaria. E il senso del dovere ha voluto che la indossassi anche l’otto marzo, durante la rivolta nel carcere di Modena.
Non so come dirlo, quindi lo dico e basta: in quella sommossa ero certa di morire.
"Oggi muoio qui", ho pensato udendo le loro urla di giubilo mentre spaccavano vetri, porte e finestre. "Che morte stupida", mi ripetevo.
Ero di riposo e sono tornata in ufficio per far telefonare i detenuti anziché starmene a casa. "Idiota io e il mio senso del dovere", continuavo a ripetere a me stessa mentre avvertivo la mia fine farsi sempre più vicina. Può sembrare una frase da film o da romanzo, ma la sensazione era questa, ed era reale. Provate a immaginarla, se volete.
L'INIZIO DELLA RIVOLTA
Ignoro come tutto sia iniziato, so solo che a un certo punto ho udito le urla dei colleghi che mi ordinavano di chiudermi in ufficio perché era in corso una rivolta. Non hanno nemmeno avuto il tempo di terminare la frase che gli allarmi hanno iniziato a suonare, le luci a spegnersi, le linee telefoniche a non dar più segni di vita. Ero impietrita dal terrore. "Oggi muoio qui", ho pensato, e la mia angoscia più grande non era perdere la vita, ma lasciare i miei adorati gatti al loro destino in un gattile. Folle a dirsi, ma è la verità.
Il tempo pareva non passare mai. Udivo urla, vetri infrangersi, tutto era confuso e ovattato. Era impossibile capire chi stesse avendo la meglio, ed è stato così non per pochi minuti, che già sarebbero sembrati eterni, ma per ore.
LA BARRICATA
A un certo punto hanno bussato alla porta e sono trasalita. “Apri, Fulvia, siamo noi” ha detto finalmente una voce amica, ma non era ancora finita, anzi. “Dobbiamo barricarci tutti insieme dentro la terza stanza”. Ho spalancato la porta, e quando ho visto che oltre ai colleghi, era presente anche il personale medico e infermieristico, ho capito che la situazione era davvero grave. Abbiamo messo quanti più ostacoli possibili tra noi e loro, abbiamo chiuso tutti i cancelli, aspettando barricati in ufficio i rinforzi. Tutti in quella stanza avevamo la certezza che non ne saremmo usciti vivi, ma nessuno aveva il coraggio di ammettere tale nefando pensiero.
NON SIAMO SOLI
“Resistete ragazzi, vi tireremo fuori di lì”, ci ripeteva il Comandante Mauro Pellegrino tramite radio, “non vi abbandono, tranquilli” ribadiva spesso con tono accorato. L’angoscia di quelle ore non può essere descritta. Quando le urla hanno iniziato a sovrastare i rumori degli allarmi, delle sirene e degli elicotteri, abbiamo capito che i detenuti si stavano avvicinando sempre di più a noi. Nel momento in cui abbiamo cominciato a percepire odore di fumo e rumore di sbarre fresate, abbiamo capito che ormai ben pochi metri ci dividevano.
IL CARCERE ERA PERDUTO, ARRIVANO I RINFORZI. UN COMANDANTE: UN CAPITANO
Il carcere era perduto, i detenuti erano ovunque. Se non fosse stato per il nostro Comandante, dubito che saremmo usciti sani e salvi da quella situazione. “Uscite ragazzi” ci disse dopo quelli che erano sembrati secoli. “Sarete scortati da una delegazione di detenuti, non vi faranno nulla. Voi però non parlate e non cedete alle provocazioni”. Abbiamo aperto la porta, ci siamo consegnati. Abbiamo formato un cordone al centro del quale abbiamo posizionato i civili, e ci siamo avviati verso l’uscita. Quei 400 metri mi sono parsi chilometri. Quando abbiamo varcato l’ultima porta lui era lì, a sincerarsi personalmente che tutti stessimo bene ed è stato in quel frangente che ho capito perché lo chiamano Capitano: un Comandante così, lo segui fino alle viscere dell’inferno se occorre, e così è stato.
A MANI NUDE CONGLI ELEMTTI DI 40 ANNI FA
Io non ho mai visto così tanti uomini e donne stringersi tanto calorosamente intorno al proprio Comandante; come lui non aveva abbandonato noi, noi ora eravamo con lui, come un solo individuo. Ho visto ragazzi di nemmeno 23 anni entrare e lottare a mani nude contro detenuti armati fino ai denti, ho visto uomini che non hanno mai indietreggiato un sol attimo nonostante la schiacciante inferiorità numerica. Se non lo faccio io, chi racconterà la storia di questi eroi silenziosi che tutti ignorano? Ci vuole coraggio a entrare in un carcere posto a ferro e fuoco con pochi scudi ed elmetti, tra l’altro dismessi, di almeno 40 anni fa. Eppure lo hanno fatto, senza indugio.
LA RICONQUISTA DEL CARCERE
Metro dopo metro ci siamo ripresi il carcere e abbiamo salvato non solo noi stessi, ma anche coloro che non avevano partecipato alla rivolta. Perché, è il caso di dirlo, non tutti i ristretti erano d’accordo con la sommossa. Non ho mai compreso perché un criminale venga sempre giustificato, mentre morire per lo Stato è dato per scontato. Nessuno racconterà la nostra storia perché noi siamo gli invisibili, coloro che non contano, che non interessano; ecco perché, da sopravvissuta, sento forte il bisogno di rivendicare il rispetto che meritiamo.
IL PRETESTO DEL CORONAVIRUS
Non potete giustificare questa apocalisse minimizzando azioni di tale nefandezza, asserendo che avevano paura del contagio del Coronavirus, o tirando in ballo, senza conoscere i fatti, la sospensione dei colloqui. La sospensione dei colloqui si era resa necessaria per via dell’emergenza sanitaria, non era certo un capriccio. Inoltre non è stata un taglio netto, perché in sostituzione era stata data la possibilità di effettuare telefonate e videochiamate via Skype ai propri cari ed è per questo motivo che pur essendo di riposo sono stata richiamata in servizio domenica. Nonostante ci fossimo ampiamente prodigati per far chiamare gli interessati anche tre, quattro volte in una settimana, era palese che ai più facinorosi nessuno sforzo bastasse, che cercassero una scusa per fomentare la rivolta. Non potete minimizzare o giustificare, mi spiace. Altro non è stato che un pretesto per porre tutto a ferro e fuoco.
Provate a immaginare la situazione che ho descritto quando ci apostrofate come sbirri, guardie, secondini. Avete per noi solo appellativi dispregiativi come se, per via della professione che svolgiamo, non fossimo capaci di essere portatori di bellezza, eccellenza, umanità. È per questo motivo che scrivo dalla pagina di Biscotto Clandestino: per dimostrarvi quanto siete in errore.
NOI SIAMO IL CORPO DI POLIZIA PENITENZIARIA
Infine, e mi rivolgo soprattutto ai professionisti della comunicazione, sono passati 30 anni dalla promulgazione della 395/90, Legge con la quale è stato sciolto il Corpo degli Agenti di Custodia e istituito quello della Polizia Penitenziaria; se proprio non riuscite a stimarci, almeno abbiate la compiacenza di chiamarci in maniera corretta.
Smettetela di indicarci come guardie carcerarie o secondini, noi siamo la POLIZIA PENITENZIARIA. Onore a noi e tutti coloro che ci sono stati accanto in quei giorni infernali.
Scritto da: Fulvia (Biscotto Clandestino) - Assistente Capo Coordinatore del Corpo di Polizia Penitenziaria
Gli eroi delle rivolte. Fabio della Croce Rossa: non siete Colleghi, siete Fratelli