Del sistema penitenziario si cominciò a parlare subito dopo la Liberazione. Molti « costituenti » avevano sperimentato la durezza e l'inciviltà delle carceri italiane e avevano toccato con mano la terribile realtà del recluso. Cosi la Costituente fece sua la norma secondo la quale la pena deve mirare alla rieducazione morale e civile del condannato; norma che, evidentemente, .non doveva rimanere allo stadio delle buone, prescrizioni ma tradursi in un nuovo regolamento.
Purtroppo da quei tempi, tra commissioni d'inchiesta, proposte dì legge, dichiarazioni programmatiche tutto è rimasto immutato e nelle nostre carceri la condizione in cui vivono i reclusi crea pericolose tensioni esplose ricorrentemente, in questi anni, senza che alcuno ne avverta la gravità.
Spesso, come alle « Nuove » di Torino, si tratta di vecchi edifici costruiti da cento anni; altrove si tratta di conventi espropriati, di fortilizi riadattati. Mentre bastano le dita di una mano per contare gli istituti nuovi: Rebibbia e pochi altri. Quello di Cuneo, modernissimo, non è stato finito per mancanza di fondi e sta andando in rovina; un carcere nuovo per Torino è previsto dal 1961, ma non si è andati oltre l'intenzione.
Una commissione d'inchiesta nel 1950 chiedeva sei i miliardi per dieci anni onde rimediare alla «arretratezza delle costruzioni». Non se ne è fatto niente. La stessa commissione parlamentare rilevava che « il Regolamento del 18 giugno 1931, tuttora vigente e pubblicato in esecuzione del Codice Rocco, contiene norme che non facilitano il processo emendativo e rappresentano coazioni lesive perfino della persona fisica del detenuto ».
Da allora sono trascorsi vent'anni. L'ultima proposta di riforma carceraria decadde nel 1963, travolta dall'assurda regola di fine legislatura; poi i nostri legislatori hanno praticamente accantonato il problema. Ora, dopo le sommosse di Roma, di Milano e di altre città è la volta delle «Nuove » di Torino. Qui i detenuti sollecitati dagli esempi di altre categorie assumono l'iniziativa e in un documento formulano numerose proposte che vanno dalla richiesta di una sorta di commissione interna per la partecipazione attiva dei detenuti alla formulazione di un nuovo regolamento alla richiesta di una rapida riforma dei codici. Alcune sono per lo meno eccessive, ma comunque debbono essere onestamente valutate.
Lo scopo principale deve essere quello di far leva sulle forze di recupero del condannato, cosi come vuole la Costituzione. Opera, allo stato dei fatti, impossibile. Intanto bisognerebbe assumere come criterio la sostituzione del cosiddetto « letto balilla » o letto di contenzione con il lettino dello psicologo. Perché al criminale deve essere assegnato un trattamento adatto alla sua personalità secondo la linea già indicata dalla sentenza di condanna. Cioè la pena dovrebbe essere individualizzata con il soccorso delle scienze biologiche, sociologiche, psicologiche. Invece ciò accade assai di rado.
E quando accade, tutto è vanificato dalla mancanza di isolamento notturno, dalla promiscuità di giovani e vecchi, di ladruncoli alla prima condanna e di criminali incalliti, dalle condizioni igieniche primitive, da alcune terribili piaghe, come quelle degli « sbarbati », che ripropongono il problema trattato da Paolo Rossi nel suo «Eros incatenato », quello cioè della omosessualità.
Sopra tutto sta la lentezza dei giudizi, il carcere preventivo che diventa vera e propria scuola del crimine, il superaffollamento, la formazione di vecchie gang e la costituzione di nuove.
Qualcosa, naturalmente, si è fatto. Radio e tv, qualche lettura, qualche sport sono entrati nel carcere. Ma siamo all'epidermide del problema: che potrà essere risolto quando la pena andrà di pari passo con la ritrovata dignità degli individui, con la convinzione che il carcerato è un uomo, con la sua umanità contaminata ma non perduta, con la sua forza morale da recuperare.
La Stampa 14 aprile 1969