Evaso da Milano: fuggito dalla finestra del bagno, era in ospedale per aver ingoiato una lemetta
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EVENTI CRITICI Evaso da Milano: fuggito dalla finestra del bagno, era in ospedale per aver ingoiato una lemetta 19/05/2018 

Fino alle tre della notte tra giovedì e venerdì, quando ha riconquistato la libertà scavalcando un davanzale, il trafficante di droga tunisino Ben Mohamed Ayari Borhane sarebbe dovuto uscire di galera nel 2032. Ha voluto decisamente anticipare i tempi con una fuga scontata nella preparazione, banale nell’esecuzione e che ora rischia di diventare pericolosa nella sua evoluzione. Per tre motivi. Primo: il 43enne Ayari Borhane, nell’ultimo carcere, quello di Opera, che lo ospitava dopo la condanna definitiva nel 2016, si era autoproclamato imam, era il più assiduo nelle preghiere (ha in fronte la classica macchia scura che conferma la frequenza di poggiarsi a terra) ed era monitorato per aver avviato un percorso di radicalizzazione. Secondo motivo: durante la detenzione, il tunisino ha assunto e non s’è affatto curato di nascondere un atteggiamento violento, soprattutto contro le guardie penitenziarie. Terzo e ultimo motivo: Ayari Borhane è convinto che la moglie, un’italiana, abbia evitato appositamente ogni contatto tra lui e la piccola figlia, figlia che la donna ha evitato di portare nei colloqui a Opera. Una scelta mai accettata dal tunisino. Non è escluso voglia «vendicarsi».

La simulazione
Il momento della fuga è dunque da collocare alle 3 dell’altra notte. Accompagnato da tre agenti, Ayari Borhane era al piano terra del Fatebenefratelli, al pronto soccorso. L’avevano trasferito lì dopo uno dei tanti — e va da sé col solito metodo — presunti tentativi di suicidio dei detenuti. Ovvero infilarsi in bocca e ingoiare una lametta da barba seppur mai «a secco», quanto avvolgendo la stessa lametta con materiale protettivo come la carta stagnola. Vera o simulata che fosse l’azione suicida, il tunisino doveva esser visitato e sottoposto a radiografie. Al Fatebenefratelli Ayari Borhane ha chiesto il permesso di andare in bagno a chi avrebbe dovuto sorvegliarlo. Nessuna delle guardie s’è preoccupata dell’eventualità ci fosse una finestra in un gabinetto, per di più un gabinetto al piano terra. Ayari Borhane ha chiuso la porta, forse ha aperto il rubinetto, forse ha tirato lo sciacquone per meglio confezionare la commedia, s’è infilato attraverso quella finestra e ha salutato la compagnia. L’allarme, a dar credito alla versione dei poliziotti, è scattato pochissimo dopo, quando il tunisino non era però nei paraggi. Difficile ipotizzare ci fosse un complice ad attenderlo, a meno che Ayari Borhane sapesse prima in quale ospedale sarebbe andato.

La caccia in tutta Italia
Dell’inseguimento si occupano in prima battuta gli agenti penitenziari. Anche per una questione di orgoglio ferito, vogliono trovarlo loro. L’errore c’è stato ed è grave ma nell’analisi dell’operato delle guardie carcerarie, al netto delle denunce non sempre realistiche dei sindacati, è notevole l’incidenza delle croniche carenze d’0rganico, della stanchezza del personale, di cospicui arretrati di giorni di riposo. Dopodiché, dal punto di vista investigativo, si sono aperti gli scenari sulla potenziale direzione assunta dell’evaso. Non si sa quanti soldi avesse in tasca, un elemento dirimente se com’è probabile Ayari Borhane è intenzionato a raggiungere la storica base di vita e crimine, l’ampia zona da Bologna alla costa adriatica fino alle Marche. Da quelle parti, insieme al fratello Youssef, aveva creato un notevole sistema di smercio di droga e aveva meritato un’accusa pesante: quella di associazione a delinquere dedita al narcotraffico.

Propaganda in carcere
E se è vero che in una delle celle del tunisino le guardie avevano trovato grammi di marijuana, è ancor più rilevante un’altra scoperta, sempre in cella: materiale di propaganda che inneggiava al jihad. L’inchiesta, coordinata dall’antiterrorismo sotto la direzione di Alberto Nobili, verterà su due binari: l’esame della vecchia cerchia di conoscenti di Ben Mohamed Ayari Youssef ai tempi della droga per «censire» chi possa dargli appoggio; e un certosino approfondimento sulla quotidianità in prigione e i detenuti con i quali ha maggiormente legato e che magari sono già stati liberati. Nulla vieta di pensare, come sostiene l’avvocato, che il tunisino fosse «soltanto» disperato, incapace di sopportare altri quattordici anni di galera con un’uscita prevista a 57 anni d’età. L’indagine interna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è un dato scontato; ugualmente acclarata la progressiva diffusione nelle carceri di cammini, individuali e di gruppo, di radicalizzazione «conseguenza» anche di un aumento delle presenze di detenuti nordafricani. Nella classificazione investigativa, Ben Mohamed Ayari Borhane è al primo livello del rischio di una deriva jihadista ma il dato non è scientifico (e può invece esser salito di grado). Pochi giorni fa, il tunisino aveva giocato l’identica carta. In ospedale avevano appurato non avesse ingoiato nessuna lametta e l’avevano rispedito indietro.

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Alcuni giorni fa aveva detto di aver ingerito una lametta, ma la visita al Fatebenefratelli aveva rivelato la bugia; così Mohamed Ben Borhane Ayari se n’era tornato in carcere a Opera. Ora quel precedente recentissimo fa pensare quasi a un sopralluogo in ospedale per il piano concretizzato ieri notte: il tunisino, che ha compiuto 43 anni il 10 maggio, ha probabilmente messo in atto la stessa recita, ma stavolta, dopo aver chiesto di andare in bagno alle tre guardie carcerarie che l’avevano scortato in pronto soccorso, è riuscito a uscire dalla finestra basculante, a superare il muro di cinta dell’istituto clinico in pieno centro a Milano e a sparire nel nulla.

LAa sua foto è stata diramata a tutte le forze di polizia, la caccia è serrata. Sì, perché Borhane non è un detenuto qualunque: negli archivi risulta «sottoposto ad attività di analisi con profilo alto monitorato per rischio radicalismo», in sintesi vuol dire che è molto pericoloso. Seguito sin dal 2014 per la sua inclinazione a predicare la Jihad e a fare proseliti tra i compagni di cella, tanto che si era autoproclamato imam, un particolare del suo volto salta subito all’occhio: la zebiba, il «bernoccolo della preghiera», una sorta di segno calloso sulla fronte causato dal battere ripetuto della fronte sul tappeto. A confrontare le istantanee dei primi fotosegnalamenti con quella diffusa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si nota un notevole dimagrimento; di più, il tunisino è cambiato fisicamente, ha i capelli corti e radi rispetto a quelli lunghi e ingellati del 2006. Nella sua cella, pare sia stato ritrovato in passato materiale propagandistico e pure dell’hascisc. A Opera ci era arrivato meno di un anno fa, trasferito dal carcere di San Gimignano. Di istituti di pena ne ha girati parecchi, soprattutto nel Centro Italia. Sempre per lo stesso reato: droga. In totale, fa sapere il suo avvocato Claudia Pezzoni, ha accumulato condanne definitive per circa 30 anni, anche se tra periodi di detenzione cautelare e pre-sofferto il fine pena si è spostato al 2032. «L’ho visto l’ultima volta il 26 marzo a Bologna per un processo finito con un’assoluzione – afferma la legale –. Mi ha richiamato dopo la sentenza per ringraziarmi dell’esito: mi sembrava tranquillo».

Di solito, Bohrane non lo era affatto: risultano a suo carico altri procedimenti pendenti per oltraggio e resistenza alle guardie carcerarie, frutto di intemperanze e atteggiamenti tutt’altro che concilianti. Del resto, a leggere la sentenza della Cassazione con la quale è stato ritenuto colpevole di associazione a delinquere dedita al narcotraffico, non andava d’accordo neppure col fratello-complice Youssef, anzi litigavano piuttosto spesso. Stesso discorso vale per la moglie di Bohrane, residente nelle Marche, che ha interrotto i rapporti con lui, impedendogli pure di vedere la figlia. Una situazione, chiosa Pezzoni, per la quale il 43enne ha molto sofferto nell’ultimo periodo. Poi, però, c’è l’altro aspetto, emerso progressivamente negli anni: il suo percorso di avvicinamento al radicalismo islamico. E qualcuno fa notare la data scelta per tagliare la corda: il giorno dopo l’inizio del Ramadan, il periodo che i fedeli islamici associano al digiuno e alla rinuncia e che a livello globale coincide con un innalzamento delle misure di sicurezza contro eventuali attentati terroristici. Solo una coincidenza o una scelta voluta? Sul caso stanno indagando gli uomini del Nucleo investigativo centrale della Polizia Penitenziaria, coordinati dal capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e dal pm di turno Ilaria Perinu.

ilgiorno.it

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