Duri scontri fra agenti e reclusi a San Vittore. Bombe lacrimogene, idranti, tre guardie ferite
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STORIA Duri scontri fra agenti e reclusi a San Vittore. Bombe lacrimogene, idranti, tre guardie ferite 23/07/1970 

I carcerati del quarto braccio al termine dell'ora di « aria » si sono rifiutati di rientrare in cella; violenti a corpo a corpo con la polizia, lancio di bottiglie piene di chiodi - Un prigioniero tenta di tagliarsi la gola, un altro minaccia di darsi fuoco.

Un'altra giornata di ribellione, di tumulti, di scontri violenti, alle carceri milanesi di San Vittore. La notte scorsa, dopa, le manifestazioni di protesta esplose in seguito alla tragedia avvenuta nella cella numero 71, dove tre giovanissimi detenuti erano morti fra le fiamme di un incendio da essi stessi appiccato, sembrava che su! vecchio fortilizio fosse ritornata la calma. I dirigenti del carcere ostentavano un certo ottimismo, dicevano di avere in pugno la situazione, quella odierna avrebbe dovuto essere una giornata come tutte le altre Invece è stata ai calor bianco.

Una prima rivolta al mattino, una seconda, più grave, nel pomeriggio, massiccio intervento in carcere di reparti della forza pubblica (circa quattrocento fra agenti di P. S. e carabinieri), scontri violenti, idranti in azione per oltre un'ora, candelotti lacrimogeni, tre feriti fra i tutori dell'ordine, non si sa quanti fra i detenuti, un recluso che tenta il suicidio cercando di recidersi la gola con un pezzo di vetro (ma il taglio è risultato superficialissimo, trascurabile) E fuori, in tutta l'area che circonda il carcere, traffico bloccato, tafferugli fra anarchici e polizia, folla di curiosi assiepata come per una corrida.

Solo verso le diciassette è tornata la calma e in serata al via vai delle ambulanze è succeduto quello dei cellulari che hanno iniziato lo « sfollamento » del carcere: oltre 120 detenuti partono per altre città.

Il primo sintomo della febbre che sarebbe scoppiata più tardi si è avuto stamattina alle 8,30 quando un gruppetto di sei o sette anarchici capeggiato da Pasquale Valitutti, l'amico di Valpreda, si è portato sotto le mura di San Vittore ed ha cominciato a gridare slogans invitando i detenuti alla rivolta. La distanza era eccessiva, le mura spesse, probabilmente all'interno si sentiva ben poco. Fra i detenuti però c'era grande tensione; dopo la tragedia che aveva provocato la morte di Marcello Mereu, Gerhard Coser e Enrico Delli Carri, ben pochi avevano dormito; da una cella all'altra si diffondevano fremiti di rivolta. Cosi alle 9 quando i reclusi sono usciti per le due ore d'aria mattutine, quelli del quarto raggio, cioè i compagni delle tre giovani vittime, si sono rifiutati di scendere nei cortili, si sono fermati sui ballatoi affacciandosi ai grandi fìnestroni che danno nelle strade sottostanti. Qualcuno ha divelto uno stipite, qualche altro ha fatto a pezzi una suppellettile; a un certo punto, fra un clamore che si andava facendo sempre più assordante, dalle finestre del carcere sono cominciati a piovere gli oggetti più diversi.

« Bruciate San Vittore », gridava il gruppetto di anarchici dalla strada. Anche i reclusi gridavano; poi, per essere meglio compresi, hanno esposto alle finestre lembi di stoffa sui quali avevano tracciato frettolosamente slogans dì protesta: « Lo Stato uccide », « Siamo come nei Lager ». « Anche San Vittore ha i suoi Pinelli »

Le forze dell'ordine, intervenute in massa, si sono limitate a circondare l'edificio e a bloccare il traffico, senza però intervenire attivamente. All'interno intanto i dirigenti del carcere e gli agenti dì custodia cercavano di fare opera di persuasione. La protesta fortunatamente era limitata al quarto raggio, anzi a una parte di esso perché una minoranza dei 228 detenuti del settore si era dissociata dai dimostranti e aveva pregato le guardie di ricondurla nelle celle. Ad un certo punto il buonsenso ha avuto il sopravvento: dopo avere cantato a lungo « Bandiera rossa » i dimostranti hanno aderito agli inviti dei dirigenti e sono rientrati.

Sembrava che tutto fosse finito, invece quattro ore dopo, alle quindici, alla fine delle ore d'aria pomeridiane, si è ripetuta, con violenza molto maggiore, la stessa scena della mattina. Questa volta i detenuti del quarto raggio sono riusciti ad impossessarsi di bottiglie che hanno riempito di chiodi, di calcinacci e di altri piccoli oggetti per trasformarle in armi più pericolose; hanno frantumato tavoli e sgabelli traendone decine e decine di bastoni, sono riusciti a svellere alcune sbarre delle inferriate, hanno cominciato ad incendiare materassi e suppellettili col pericolo di provocare una catastrofe. A questo punto il vicequestore Vittoria ha dato ordine alle forze di P. S. e ai carabinieri che sostavano nei dintorni di fare irruzione nel carcere.

Proteggendosi con gli scudi gli agenti sono entrati cercando di sospingere indietro i rivoltosi con una manovra « a testuggine ». Ma sono stati accolti da un fitto lancio di bottiglie, di sbarre, di mattoni, che hanno colpito, talora gravemente, molti di loro. Gli scontri si sono protratti per qualche tempo senza però che la polizia spingesse mai fino in fondo. A un certo punto, approfittando di una breve tregua, il vicequestore ha lanciato ai rivoltosi un ultimatum: se fra dieci minuti non fossero rientrati in cella, la polizia avrebbe attaccato in massa. Alcuni hanno accettato, altri no, fra gli stessi detenuti sono nate polemiche, poi risse violente; agenti di P. S. e carabinieri sono intervenuti decisamente con gli idranti e con gli sfollagente; la battaglia si è spezzata in decine di piccoli scontri frammentari che hanno visto prevalere carabinieri ed agenti. Ma per spegnere gli ultimi focolai di resistenza la polizia ha dovuto lanciare cinque candelotti lacrimogeni.

Dopo un'ora e mezzo circa la rivolta poteva dirsi finita. Ma gli animi dei reclusi erano ancora carichi d'odio e di disperazione: in questa fase, quando tutto sembrava ormai finito, un agente è stato colpito alìe spalle con una sbarra di ferro, e un detenuto, come abbiamo detto all'inizio, ha tentato di tagliarsi la gola, fortunatamente senza riuscirci. All'esterno nel frattempo altri agenti erano intervenuti contro il gruppetto di anarchici che, sempre guidato da Salvatore Valitutti, stava lanciando sassi contro le guardie che pattugliavano il camminamento alla sommità della muraglia che circonda San Vittore. Il Valitutti e alcuni suoi compagni sono stati arrestati e trasportati in questura. In serata, come abbiamo detto, è cominciato il trasferimento di 120 detenuti del quarto raggio che verranno smistati in altre carceri italiane. 

Bisogno di droga?

Si è appreso inoltre che da quattro giorni un altro recluso è barricato nella propria cella e minaccia di appiccarsi fuoco se non saranno prese al più presto In considerazione le sue richieste: il detenuto è Dante Sacca, noto nel mondo della malavita milanese, coinvolto nel cosiddetto « racket delle bische » ed attualmente in attesa di giudizio per una estorsione ai gestori di due circoli milanesi. Sacca chiede che venga anticipato l'inizio del suo processo fissato per il 9 dicembre prossimo, oppure che gli venga concessa la libertà provvisoria che è stata chiesta 15 giorni fa dal suo legale, aw. Angelo Pistritto. Proseguono intanto attivamente le due inchieste, quella giudiziaria e quella amministrativa, per appurare la causa della tragedia di ieri sera in cui hanno trovato la morte i tre giovani detenuti della cella numero 71.

Nella tarda mattinata di oggi, nel breve periodo di tranquillità fra il primo e il secondo tumulto, il direttore del carcere, dott. Alfonso Corbo ha tenuto una conferenza-stampa. 

Egli ha smentito recisamente la voce secondo la quale per appiccare il inora i tre giovani si sarebbero serviti di una bomboletta « spray » di disinfettante in dotazione alle varie celle per la lotta contro gli insetti. Disinfettanti di questo tipo non sono in dotazione del carcere e non sono mai stati distribuiti. Ai detenuti è però concesso di tenere fiammiferi e anche tavolette di combustibile solido a basso potere calorifico di cui si servono per riscaldare all'occorrenza cibi e bevande. Di questi mezzi normali debbono quindi essersi serviti per appiccare fuoco a pezzi di carta, a brandelli di stoffa e, in un secondo tempo, ai materassi di gommapiuma delle loro brandine. Chi ha appiccato il fuoco? Anche a questa domanda naturalmente il direttore del carcere non ha potuto dare risposta.

Com'è noto due dei giovani detenuti, il diciannovenne Marcello Mereu, un giovane sardo venuto da poco a Milano con la famiglia d'origine, e l'austriaco Gerhard Coser, anch'egli di diciannove anni — erano stati arrestati per detenzione e traffico di stupefacenti ed erano in attesa di giudizio (più grave il caso del'Coser trovato in possesso di quattro chili di hashish, più lieve, quasi trascurabile, quello del Mereu addosso al quale erano state rinvenute soltanto tre bustine del blando stupefacente); il terzo detenuto, Enrico Delli Carri, ventunenne, era stato condannato a due anni e cinque mesi per furto, ma, avendo beneficiato di un condono di due anni, sapeva che sarebbe uscito di prigione il novembre prossimo. A questo punto pare più probabile l'ipotesi che l'idea di appiccare il fuoco alla cella sia venuta ai due ragazzi che avevano confidenza con la droga. Il direttore del carcere ha negato che i due fossero tossicomani incalliti e che pertanto possano essere stati spinti al loro gesto dalla disperazione allucinante e insostenibile che coglie chi è abituato a drogarsi quando gli viene tolta di colpo la possibilità di far uso dello stupefacente. Ma anche nel caso che i due ragazzi fossero davvero normali e non provassero alcun desiderio di drogarsi, non c'è da meravigliarsi se a un certo punto i loro nervi siano saltati.

Marcello Mereu era in carcere da due mesi (fu arrestato il 20 maggio), Gerhard Coser da un mese appena (il suo arresto risale al 10 giugno); periodi brevissimi per i vecchi lupi della mala vita abituati a interri ' ..i. .- detenzioni preventiv no; ma a due ragaz poco più che adolescente, al loro primo contatto col carcere, trenta o sessanta giorni debbono essere sembrati interminabili. Ed ecco l'idea dell'incendio per protesta. In proposito si possono fare solo delle ipotesi, tutto però lascia supporre che i due — o i tre se anche il Delli Carri era d'accordo con loro — non intendessero affatto bruciarsi vivi come bonzi vietnamiti. E' quasi certo che col loro gesto volevano soltanto richiamare l'attenzione delle autorità carcerarie e della stampa cittadina. Perché mai allora si è arrivati alla tragedia? Perché le guardie di custodia non sono intervenute tempestivamente?

Il direttore delle carceri ha dato la seguente versione. Il primo piano del quarto raggio, dove è avvenuta la tragedia, è un immenso stanzone di settanta metri per undici circondato da un ballatoio al quale si affacciano le porte delle celle. In questo periodo dato il caldo estivo ai detenuti è concesso eli mantenere , uno spiraglio aperto per facilitare l'aerazione, spiraglio che tuttavia dati i congegni di sicurezza, non può aprirsi che entro un certo limite.

Soccorsi in ritardo

Alle 19,40 di ieri sera la guardia carceraria Giorgio Colangelo stava passando di porta in porta per la distribuzione della posta, per la precisione degli espressi. Arrivato alla cella numero 71 (nessun espresso per i tre che la occupavano) sentì una voce che lo pregava di chiudere la porta: il Delli Carri era raffreddato e la corrente d'aria gli dava fastidio. L'agente esaudì il desiderio, chiuse, e continuò il suo giro, distribuendo la corrispondenza e scambiando ogni volta qualche.parola con i detenuti. Dopo una ventina di minuti, quando era ormai al termine del suo giro, sentì qualche rumore dal lato opposto del ballatoio e notò una nuvola di fumo. Dette l'allarme, accorse gente, tutti insieme giunsero alla cella numero 71, aprirono la porta, furono ricacciati indietro dalle fiamme che solo dopo qualche minuto vennero sopraffatte dagli estintori.

Purtroppo niente da fare. Il Mereu e il Delli Carri erano già morti. Gerhard Coser era in fin di vita, venne trasportato d'urgenza all'ospedale di Niguarda dove spirò poco dopo. Questa la versione ufficiale, che tuttavia lascia molto perplessi. Se è vero che i tre non intendevano fare la fine dei bonzi vietnamiti, è chiaro che a un certo punto, quando si sono accorti che l'incendio prendeva proporzioni eccessive, avranno cominciato a gridare, a battere pugni, calci alla porta.

Possibile che il guardiano, che era sullo stesso piano, non se ne sia accorto? Possibile che non se ne siano accorti i vicini di cella? Tutto lascia presumere che a un certo punto decine e decine di detenuti abbiano cominciato a battere coi pugni contro le porte. Perché nessuno è intervenuto? Si sa, l'atmosfera delle carceri è improntata a indifferenza e cinismo; può darsi che la guardia sentendo il fracasso dal lato opposto del ballatoio, abbia pensato a « una delle solite manifestazioni di protesta », non abbia dato peso alle grida pensando che prima o poi i detenuti si sarebbero calmati. E' solo una ipotesi, si capisce; ma ci sembra più probabile di quella del suicidio silenzioso di tre ragazzi. 

La Stampa 23 luglio 1970

 


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