La rivolta del carcere di Rebibbia è finita. I reparti di polizia, entrati nelle prime ore di questa mattina nell'istituto di pena, non hanno dovuto far ricorso alla forza per riportare l'ordine. I detenuti erano già ritornati nelle celle. Subito dopo sorto incominciati i trasferimenti in altre prigioni, sia per motivi disciplinari sia perché, dopo le devastazioni subite, alcuni bracci del carcere dovranno essere riadattati.
Secondo un primo sommario bilancio, le strutture di Rebibbia sono state danneggiate così seriamente, nel corso delle fasi più acute della protesta, che saranno necessari circa due miliardi per le riparazioni. Ci vorranno duecento milioni per le sole riparazioni al terminal del computer. Prima che i lavori siano completati, secondo i funzionari del carcere, è probabile che trascorrano parecchi mesi. Almeno trecento detenuti, verranno allontanati definitivamente. Parecchi degli altri, attenderanno in altre prigioni che le loro celle siano nuovamente a posto. In totale 672 persone, più della metà della popolazione attuale del carcere, lasceranno Rebibbia in giornata per altre destinazioni; 120 andranno a Gaeta, nel carcere, militare. Si tratta dei più giovani, quelli rinchiusi nel braccio G 12. “Anche le carceri militari sono prigioni dello Stato - ha detto un funzionario - ed è lecito farvi ricorso se non vi è altra disponibilità”. I centocinquanta reclusi verranno trasferiti a Bari, 30 a Civitavecchia, 80 in Sardegna; i restanti, in quote minori, raggiungeranno altri istituti di pena sparsi per tutta la penisola. Dal momento che i cinquanta cellulari blindati preparati all'esterno del carcere sin dall'alba non sono in grado di accogliere un numero così alto di prigionieri, per ì trasferimenti saranno utilizzati anche pullman noleggiati presso le - compagnie turistiche. I vigili del fuoco hanno spento numerosi incendi, fortunatamente di non grandi dimensioni: uno nell'ufficio matricola, uno nella segreteria, altri in uffici e celle. Le fiamme hanno danneggiato pesantemente il terminale del computer che collega Rebibbia al ministero di Grazia e Giustizia, e distrutto tutta la documentazione relativa alla posizione dei detenuti.
All'alba una delegazione di detenuti aveva tentato invano di sventare l'irruzione della polizia, chiedendo di parlamentare e promettendo la resa. Le autorità, però, per motivi di sicurezza hanno preferito dar luogo allo sgombero. Un migliaio di carabinieri e agenti di pubblica sicurezza sono entrati nei cortili, senza fare irruzione nei bracci. Dall'alto alcuni elicotteri, su uno dei quali era il questore di Roma, Macera, controllavano gli spostamenti dei detenuti. Sui tetti si trovavano ancora molti reclusi, armati di bastoni ricavati dalle gambe dei mobili distrutti. Dagli elicotteri è stata lanciata una salva di bombe lacrimogene sul tetto. Dopo qualche minuto, incapaci di resistere, la maggior parte dei rivoltosi è scesa nei corridoi, mentre solo una cinquantina di reclusi sono rimasti sui marciapiedi dicendosi disposti a resistere a oltranza. Quando però, dopo una lunga sosta nei cortili, gli agenti sono entrati nei “bracci”, non hanno trovato ostacoli.
Lo sgombero definitivo è avvenuto intorno alle 9,30, quando anche gli ultimi 50, armati di spranghe di ferro, sassi tolti dai cortili sbrecciati e di bastoni, e attestati sul tetto del braccio 12, si sono consegnati alle forze dell'ordine. Il bilancio della rivolta è di tredici tra feriti o contusi, tutti detenuti, in seguito a risse avvenute nel corso della notte. Destano preoccupazioni le condizioni di Pietro Nerea, di 20 anni, che è stato buttato giù da un muraglione alto dieci metri, ed è attualmente ricoverato al policlinico in osservazione per varie fratture e trauma cranico. Gli altri feriti, a parte Mario Bonato, di 35 anni, che ha avuto una prognosi di 40 giorni, sono stati giù dicati guaribili in dieci giorni.
Le risse sono nate in seguito, a dissensi sul comportamento da tenere di fronte all'autorità carceraria, e sul proseguimento o meno della rivolta. La sommossa dei detenuti di Rebibbia è stata originata dalla mancata applicazione della legge sull'ordinamento delle case di pena e sulle “misure privative e limitative della libertà”. La legge è entrata in, vigore da due giorni, ma solamente sulla carta. Di qui prima la delusione poi la rabbia sfociata nella ribellione. I rivoltosi rivendicano in particolare l'attuazione di tre articoli della legge: quello relativo al regime di semilibertà, in virtù del quale un detenuto può uscire al mattino dal carcere per andare a lavorare e rientrarvi all'ora di cena; quello che prevede l'affidamento al “servizio sociale”, cioè la sorveglianza del detenuto libero da parte di personale specializzato; infine l'articolo relativo alla liberazione anticipata. Queste norme sono in vigore, ma solo in teoria, perché, come hanno dichiarato i funzionari del ministero di Grazia e Giustizia, “ancora il regolamento di applicazione deve essere approntato” e "non esistono neppure le strutture sociali che dovrebbero gestire la vigilanza sul detenuto liberato e il suo reingresso nella società attiva”.
Alcune cose però si possono fare subito: fra queste l'abolizione della censura sulla corrispondenza. A Regina Coeli ieri pomeriggio sono state distribuite numerose lettere, integre, ai detenuti. Si dice, ma manca una conferma ufficiale, che a Rebibbia invece ci si sia attenuti al vecchio sistema, e che questa circostanza sia una di quelle che ha fatto scoppiare la scintilla della sommossa.
La Stampa 26 agosto 1975