Al di là della rivolta alle « Nuove », e delle agitazioni in altre carceri, dell'esasperazione esplosa in violenza cieca, dei singoli episodi anche delittuosi, emerge un problema di fondo: l'assurdo e inumano regime carcerario.
Già nell'ottobre del 1948 Calamandrei aveva parlato alla Camera della necessità di una riforma fondamentale dei metodi carcerari e degli stabilimenti di pena; e la Camera aveva deliberato all'unanimità l'istituzione di una commissione permanente di vigilanza sulle carceri, che era qualcosa di più di una commissione d'inchiesta. Ma quella deliberazione, e i tentativi successivi di risollevare la questione, sono rimasti lettera morta.
Qualche miglioramento empirico e superficiale è stato introdotto qua e là; ma le cose sono rimaste immutate. Perché? Forse c'è del vero nell'amara osservazione fatta più di vent'anni fa da uno che, per ragioni politiche, nelle carceri aveva vissuto a lungo: « L'architettura delle carceri, con quell'accavallarsi di muraglie lisce e respingenti, non serve solo a segregare i delinquenti dal mondo esterno, ma è fatta in modo da scoraggiare qualsiasi interessamento morale del pubblico a quel che succede dentro, e da placare nel disinteressamento totale le coscienze eventualmente turbate... [I reclusi] ci danno fastidio perché sono lo specchio vivente della nostra mancanza di solidarietà umana».
Queste parole mi sono tornate a mente poco fa, nel passare accanto alle rosse muraglie delle «Nuove», ancora avvolte di fumo. Sappiamo benissimo che, per l'art. 27 della Costituzione, le pene • devono tendere alla rieducazione del condannato.
Quanta giulebbosa retorica si è profusa in questi anni! Ma che cosa si è fatto di concreto?
La verità è che ancora impera il regolamento carcerario del 1931, innestato su un tronco fradicio qual era il regime preesistente. Ma guardiamo, oltre ogni troppo facile recriminazione, i realissimi mali che deturpano e soffocano la vita carceraria. Gli edifici antiquati, spesso relitti di vecchi conventi o castelli, sono la regola, non l'eccezione. Ricordiamo la veemente deplorazione di uno dei nostri migliori Procuratori generali, Alessandro Caprioglio, sulle condizioni addirittura bestiali del carcere di una grande città del Veneto. Altrove, costosissimi stabilimenti modernamente concepiti cadono in rovina, perché non messi in condizione di funzionare. Congiunto all'inadeguatezza e insufficienza dèi locali è il fenomeno del sovraffollamento, che le ricorrenti amnistie riducono solo in parte e momentaneamente, e in modo distorto.
Più grave di tutti è il male della carcerazione preventiva, che spesso si protrae per molti mesi, o addirittura per anni. Ha scritto Altiero Spinelli: « Una riforma del carcere giudiziario dovrebbe mirare anzitutto a ridurre al minimo la durata della detenzione preventiva. La magistratura penale dovrebbe essere retta dal principio che ogni giorno di permanenza dell'imputato nel carcere preventivo lo spinge un po' di più. sulla via della delinquenza ». Questo perché le carceri, nelle condizioni in cui sono oggi, spesso si riducono a un « focolaio di avvilimento e di depravazione».
Qui il problema della riforma carceraria naturalmente si allarga a quello, che si trascina da troppi anni, della riforma del codice penale e del codice di procedura penale. I fatti odierni dimostrano che non c'è più tempo da perdere. Ma per tornare alle carceri, c'è ancora da dire che tutto il regolamento va rifatto da capo a fondo. Oggi ancora sopravvive al fascismo, in questo settore, «un soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria».
Accennerò a due soli punti. Uno è il problema sessuale delle carceri, «da cui deriva una delle piaghe più orrende e mostruose, che nessuno ha il coraggio di guardare nella sua scottante e ributtante realtà» (come disse un giorno il magistrato Ernesto Battagline che fu anche'giudice: di sorveglianza).
L'altro problema è quello del lavoro, che dovrebbe essere organizzato in stabilimenti ad hoc, con vantaggio dei detenuti e della società, e adeguatamente retribuito.
Bisognerebbe guardarsi un po' attorno, e vedere come questi problemi sono stati risolti in altri Paesi. Non vogliamo fare parole grosse; ma anche questo è un problema di civiltà.
A. Galante Garrone - La Stampa, 15 aprile 1969