Presso la Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, ha svolto oggi l'audizione di Antonino Di Matteo, consigliere del Csm.
Gli argomenti affrontati da Antonino Di Matteo sono stati principalmente la sua mancata nomina a Capo del DAP, ma il magistrato ha fatto luce suparecchi altri retroscena del suo rapporto con il Movimento Cique Stelle e di quanto poi siano stati i dietro-front dei politici pentastellati nei suoi confronti.
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Una “credibilità istituzionale compromessa”. Quella di Bonafede per la nomina di Di Matteo a capo del Dap, prima promessa e poi negata nel giugno del 2018. Ancora l’ex pm di Palermo e ora togato del Csm Nino Di Matteo contro il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Davanti alla commissione parlamentare Antimafia, cioè nella sede istituzionale che Di Matteo ha imposto come condizione per ricostruire il suo contrasto con il ministro della Giustizia, l’ex pm protagonista del processo sulla trattativa Stato-mafia ripete esattamente, ma con molti più dettagli, quando ha già detto il 3 maggio in una telefonata in diretta nella trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti e due giorni dopo con Repubblica. Per quella telefonata Bonafede ha già affrontato al Senato una mozione di sfiducia individuale che è stata respinta dalla maggioranza.
La storia dell’incarico al Dap
Lo scontro Di Matteo-Bonafede è ormai noto. Di Matteo lo ribadisce: il 18 giugno del 2018, per telefono, Bonafede gli propose di diventare il capo del Dap, ma il giorno dopo, in un incontro a Roma, quando Di Matteo andò al ministero per accettare, Bonafede gli disse che lui preferiva mandarlo alla direzione degli Affari penali, “il posto che fu di Falcone”. Di Matteo lasciò l’ufficio, ma subito dopo richiamò il ministro per un nuovo appuntamento. Il giorno dopo negò recisamente la sua disponibilità, ma sulla porta Bonafede gli disse: “Ci sto rimanendo male...sappia solo che per la direzione degli Affari penali non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano”. Una frase, quest’ultima, che Di Matteo ritiene debba essere chiarita. Perché, dice l’ex pm, “non è compito mio sapere a chi si riferisse, potrebbe dirlo solo Bonafede, ma ritengo che la vicenda non sia più personale, ma istituzionale”.
Nella lunga audizione si susseguono i dubbi di Di Matteo. Come questo: “Bonafede sapeva di aver chiamato un magistrato non gradito a tutti, ma che molti non gradivano, quindi io dico se mi chiami e mi proponi il Dap e poi fai marcia indietro, allora perché mi hai chiamato, perché mi hai esposto ancora, perché di fronte ai mafiosi che non mi volevano mi fai fare la figura di quello - usando il gergo dei mafiosi stessi - che viene ‘posato’”? E ancora, rivolto a Bonafede: “L’equivoco non c’è, non c’è pace perché non c’è stata guerra, qui non c’è una problematica di invidiuzze o di posti che si reclamano, io non ho mai avuto bisogno di andare al ministero, né di rivolgermi a correnti e correntine per andarci, ma io non ho capito il motivo di questo dietrofront”.
Il film dei colloqui tra Di Matteo e Bonafede
Ma ecco la ricostruzione che Di Matteo fa davanti all’Antimafia. Siamo al 18 giugno del 2018. Di Matteo è a casa e riceve una telefonata di Bonafede. Con lui, per scrivere un libro, c’è il giornalista Saverio Lodato. Bonafede gli propone di diventare il capo del Dap, in alternativa gli propone il posto di direttore degli Affari penali. Di Matteo gli ricorda però che “ci sono 51 detenuti al 41 bis che chiedono di parlare con i magistrati di sorveglianza per protestare contro questa eventualità”. Di Matteo specifica che “dalla risposta di Bonafede non fui in grado di capire quanto sapeva di quella informativa del Gom”. Ma il suo parlargli del rapporto del Gom fu una dimostrazione “di leale collaborazione istituzionale”. Il colloquio prosegue: “Almeno tre volte il ministro mi disse ‘scelga lei’. Quando gli dissi ‘vengo da lei domani’, lui ribadì ‘scelga lei’. Chiusa la telefonata io non ebbi alcun dubbio, tant’è che lo riferii ai miei familiari e dissi a Lodato che quel pomeriggio non potevo lavorare, e che non avevo alcun dubbio sull’accettare il Dap. Pensai pure che mentre i detenuti protestavano era rilevante che Bonafede mi proponesse di fare il capo del Dap”.
Deciso a dirgli di sì
Prosegue la ricostruzione di Di Matteo: “Non ho avuto dubbi sull’accettare, perché molte indagini giudiziarie mi avevano fatto comprendere quanto una gestione corretta ed efficace del sistema penitenziario potesse servire per la lotta alla mafia e al terrorismo, e volevo dare un contributo perché l’esecuzione della pena non è un capitolo separato”. Dunque Di Matteo, la mattina del 19 giugno, arriva a Roma per accettare l’incarico. “Mi recai intorno alle 11 da Bonafede. Ero lì per comunicare la mia scelta rispetto alla sua frase, a quel ‘scelga lei’. Io non ho mai chiesto alcunché, ma sono stato cercato, io non ho cercato nessuno, ho ricevuto una precisa proposta, non ho perorato un incarico perché secondo me un magistrato non lo deve fare per conservare la sua autonomia”. Racconta ancora l’ex pm: “Di quell’incontro ho un ricordo nitido perché tornavo lì in via Arenula dopo il 6 febbraio 1991 quando feci il colloquio orale per il concorso in magistratura. Dissi subito a Bonafede che accettavo l’incarico di direttore del Dap, glielo dissi meno di 24 ore dopo la sua proposta”.
Il passo indietro di Bonafede
Ma eccoci al giallo. Dice Di Matteo: “Con sorpresa il ministro disse che sì, l’incarico era importante, ma c’erano prevalenti aspetti che non erano confacenti alla mia precedente esperienza, perché il capo del Dap si occupa di rapporti con i sindacati, della gestione delle gare d’appalto, del rapporto con la Polizia Penitenziaria, vicende che lo assorbono in modo preponderante”. Chiosa Di Matteo: “Non avevo chiaro quale fosse lo sbocco delle sue parole, e mi permisi di ricordargli gli aspetti anzidetti, perché noi che abbiamo fatto indagini a Palermo sappiamo, perché è già scritto nelle sentenze definitive, quale sia stato il ruolo del penitenziario e del 41bis nelle stragi del 93, nella trattativa Stato-mafia, e prima del ‘92 per gli attentati pianificati come quello contro Piero Grasso, quanto fosse fondamentale per i carcerati ottenere garanzie sul 41bis, sui detenuti over 70 anni, sull’abolizione dell’ergastolo”. Di Matteo racconta di aver detto a Bonafede quanto ”in questa prospettiva fosse fondamentale la direzione del Dap per l’azione di contrasto a 360 gradi nel contrasto alle mafie”.
Bonafede insiste sugli Affari penali
Ma, racconta ancora Di Matteo, “Bonafede insistette per l’incarico agli Affari penali, dicendo che però prima doveva convincere e trasferire la collega Donati. Fece il paragone con Falcone e Martelli. Gli dissi, senza volermi paragonare a Falcone, che l’assetto del ministero era del tutto cambiato perché Falcone aveva un’interlocuzione diretta con il ministro, mentre oggi gli Affari penali erano sotto il Dag che ha rapporti diretti con il ministro. Bonafede mi disse che il capo del Dag era Corasaniti che aveva stima per me e non mi avrebbe ostacolato”.
Di Matteo dice ancora: “Io ero veramente sorpreso. Ero stupito dal ridimensionamento di Bonafede rispetto alla proposta del Dap. In quell’occasione, 24 ore dopo avermi proposta per il vertice del Dap, mi disse che aveva pensato a Basentini, mi chiese se lo conoscevo, ma gli dissi di no. In effetti ho poi controllato che la richiesta di collocamento fuori ruolo di Francesco Basentini è del 19 giugno, quindi lo stesso giorno dell’incontro di Bonafede con me. Il ministro mi invitò a riflettere. Mi disse che a settembre mi avrebbe fatto sapere del caso Donati per consentirmi di predisporre un curriculum e per poter partecipare alla selezione per il posto di direttore degli Affari penali. Io ascoltavo perplesso, non ero affatto convinto”.
La decisione di dire no a Bonafede
Eccoci al momento in cui Di Matteo rifiuta la proposta di Bonafede. “Io sono uscito dal ministero e sono salito sull’auto. Dissi a me stesso: non voglio nemmeno dare l’illusione o l’aspettativa a Bonafede di poter contare su di me per gli Affari penali”. Arrivato nel suo ufficio alla Procura nazionale antimafia Di Matteo richiama Bonafede e gli chiede di rivederlo il giorno dopo “per 5 minuti”. Bonafede mi disse “ci vediamo domani”. Ecco ancora Di Matteo: “In 5 minuti gli dissi ‘non tenga assolutamente in conto nessuna mia disponibilità, io sto bene dove sono, non sono disponibile, non mi contatti a settembre per gli Affari penali’. Lui insistette più volte. Mentre eravamo sull’uscio mi disse una frase precisa, le cui parole non ho motivo di equivocare né allora, né ora. Mi disse ‘ci sto rimanendo male perché per quest’altro incarico non ci saranno dinieghi, o mancati gradimenti che tengano’. Io non mi sono mai sognato di chiedere a Bonafede cosa fosse avvenuto in quelle 22 ore, chi gli avesse prospettato un diniego o che volesse dire con mancati gradimenti”.
La reazione di Di Matteo
“È chiaro che ci sono rimasto male, ma non per me, per la mia figura, perché ero nell’ufficio in cui avevo aspirato di essere (la procura nazionale Antimafia). Non ho certo pensato che Bonafede avesse fatto marcia indietro per la reazione dei mafiosi, perché se l’avessi pensato sarei andato subito a denunciarlo alla procura della Repubblica. Ci rimasi male perché non ci si comporta così con un magistrato che viene da 25 anni di importante lotta alla mafia, minacciato di morte da Riina, con l’esplosivo già pronto per me, che vivo con un livello di protezione eccezionale. Ci sono rimasto male ancora di più perché il ministro sapeva che la nomina non solo era stata oggetto di dibattito in carcere, ma 51 detenuti al 41bis avevano chiesto di protestare con il magistrato di sorveglianza”. Lei ipotizza una marcia indietro di Bonafede per questa ragione gli chiedono? Di Matteo è netto: “Se l’avessi pensato sarei andato a denunciarlo in una procura della Repubblica”.
Perché Di Matteo parla dopo due anni di silenzio
Per la prima volta, Di Matteo racconta all’Antimafia di aver riferito due anni fa l’incontro con Bonafede a più persone, “Roberto Tartaglia, Antonio Ingroia, Francesco Del Bene, i colleghi della procura nazionale Antimafia De Simone, Principato, Del Gaudio, Piscitello, Ardita, ma anche al generale Mauro D’amico (che tuttora comanda il Gom) che più volte aveva auspicato un mio eventuale coinvolgimento”. Ne parlò anche con giornalisti come Saverio Lodato “che mi hanno chiesto interviste che io ho sempre rifiutato per ragioni istituzionali pur giudicando assolutamente incomprensibile il comportamento del ministro che però non volevo delegittimare, né lui, né il Dap, né Basentini. Non l’ho mai voluto dire”.
Poi arriva la stagione delle “centinaia di scarcerazioni di quest’anno”
“Devastanti” le definisce l’ex pm. Dice Di Matteo: “Avevo saputo della circolare del 21 marzo, erano intervenute da poco le dimissioni di Basentini, perché non avrei parlato con lui in sella. Ricominciavano a filtrare le voci di un mio incarico come capo del Dap, la notizia esce sul sito della Polizia Penitenziaria il primo maggio, poi la nomina di Tartaglia come vice e quella di Petralia come capo del Dap. A quel punto, chi sa mi chiede di nuovo un’intervista. Dico di no. Mi chiamano anche dalla trasmissione di Massimo Giletti, ma declino. Poi ascolto la trasmissione, sento parlare di mancato accordo, di trattativa. Allora ho sentito il bisogno di raccontare la verità, perché a questo punto la vicenda non è solo personale, ma per me diventa istituzionale. Nel momento in cui, nel giro di 22 ore, il ministro fa dietrofront e mi dice che per l’altro posto ‘non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano’. Di Matteo conclude: “Non è compito mio sapere a chi si riferisse, potrebbe dirlo solo Bonafede. Ma la vicenda non è più personale, ma istituzionale”.
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