Una lettera di una pagina, inviata a tutti penitenziari italiani per chiedere i nomi dei detenuti che hanno più di 70 anni e sono affetti da alcune patologie. Anche quelli che sono ristretti in regime di 41 bis e Alta sicurezza, cioè i capimafia, i boss di Cosa nostra, di ‘ndrangheta e di camorra, i killer che hanno fatto le stragi. Negli ambienti giudiziari sta scatendando più di qualche polemica la nota inviata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria alle direzioni delle carceri.
Un documento che non è recentissimo: risale al 21 marzo scorso, quattro giorni dopo l’approvazione del decreto Cura Italia. Nel provvedimento del governo c’erano anche alcune norme per combattere il contagio del coronavirus all’interno delle carceri, diminuendone l’affollamento. In pratica si stabiliva che i detenuti condannati per reati di minore gravità, e con meno di 18 mesi da scontare, potevano farlo agli arresti domiciliari. Se però il residuo di pena è superiore a sei mesi i detenuti dovranno indossare il braccialetto elettronico, cioè quel congegno che consente il controllo a distanza.
La nota del Dap, però, non fa alcun riferimento alla situazione giudiziaria dei detenuti. Si limita ad elencare dieci condizioni, “cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze“: nove sono patologie, l’ultima è avere un’eta “superiore ai 70 anni“. “Le direzioni comunicheranno con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza il nominativo del ristretto che dovesse trovarsi nelle predette condizioni”, scrive la direzione generale del Dap. Chiaramente si tratta solo di un atto preliminare, che serve a preparare l’amministrazione penitenziaria alla gestione dell’emergenza. Se fosse scoppiata davvero l’epidemia nei penitenziari, come avrebbe fatto il ministero a sapere quanti detenuti avevano più possibilità di contrarre il virus?
Quel documento, però, ha mandato fibrillazione gli ambienti giudiziari legati alla gestione carceraria. Il motivo? Non fa distinzione fra i detenuti, e quindi include in quegli elenchi di over 70 anche i circa 75o in regime di 41 bis e le migliaia che invece stanno nei reparti ad Alta sicurezza. È il cosiddetto “carcere duro“, dove ci sono mafiosi e killer che hanno fatto la storia criminale del Paese: dal boss di Cosa nostra Leoluca Bagarella, killer dei corleonesi e cognato di Totò Riina, al cassiere della mafia Pippo Calò, a Nitto Santapaola e Raffaele Cutolo, passando per il capostipite della ‘ndrangheta Umberto Bellocco. Hanno tutti più di 70 anni e qualche patologia, e quindi sono stati tutti inclusi negli elenchi forniti dai penitenziari “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”. Il rischio, come dicono alcune fonti al fattoquotidiano.it, è che l’onda lunga delle scarcerazioni per l’epidemia arrivi prima o poi anche ai boss stragisti reclusi al 41 bis.
Il malumore nei penitenziari è a livelli altissimi. E i sindacati di polizia protestano: “L’Amministrazione penitenziaria centrale da sempre si preoccupa esclusivamente dei detenuti piuttosto che del proprio personale, in particolare di Polizia Penitenziaria e ciò indipendentemente dalla pericolosità dei soggetti, dalla gravità dei reati commessi e dei comportamenti anche violenti in carcere (non si effettuano procedimenti disciplinari)”, dice Leo Beneduci, segretario del sindacato Osapp. “I positivi al contagio nella peniteniziaria – ricorda – sono oltre il doppio rispetto ai detenuti: sono 350 contro 150. Dati che peraltro che il Dap non diffonde né fornisce”.
ilfattoquotidiano.it
La lettera del DAP, sospettata di essere la causa dell'invio ai domiciliari dei boss mafiosi