Entro la prossima settimana le ricoverate del manicomio giudiziario di Pozzuoli saranno trasferite: quaranta nell'ospedale psichiatrico di Napoli “Bianchi” e le altre cinquanta nel manicomio civile di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, che fin dal 1939 è convenzionato con il ministero di Grazia e Giustizia. All'istituto di Pozzuoli, trasformato in carcere femminile, cominceranno ad affluire parte delle duemila donne detenute a Poggioreale in condizioni di cronico sovraffollamento. Una vergogna Si chiude così uno dei capitoli più vergognosi nella storia delle nostre istituzioni sanitarie e carcerarie (qui due giorni fa Teresa Quinto si è uccisa, nel dicembre scorso Antonia Bernardini è bruciata sul letto di contenzione, nel 1973 a Liliana Cobini fu sfondata la trachea, nel 1970 a Carol Berger furono negate le cure necessarie per sopravvivere). Ma restano altri nodi, non meno terribili, da sciogliere.
Alle porte di Napoli c'è il manicomio giudiziario di Aversa, uno dei più grandi d'Italia, sul quale gravano le denunce sporte da un gruppo di ex internati. Oggi i loro legali hanno inviato al ministro di Grazia e Giustizia e al procuratore generale di Napoli una diffida in cui - rilevato lo stato di pericolosità ammesso anche dai periti d'ufficio, e data l'inquietudine che i fatti di Pozzuoli hanno seminato fra i ricoverati e le loro famiglie - si chiede la chiusura dell'istituto e si avvertono le autorità che esse sarebbero ritenute responsabili di eventuali fatti dannosi.
A metà febbraio la procura di Napoli ha aperto un'inchiesta su questo istituto e ai primi di marzo ha spedito tre avvisi di reato, per omissione di atti d'ufficio e violenza privata continuata, al direttore Domenico Ragozzino, al maresciallo delle guardie di custodia Borrelli e all'appuntato Gardillo. Il 12 marzo il collegio di difesa delle parti lese ha presentato un nuovo esposto, in cui si chiede il sequestro del manicomio per inagibilità, la sospensione dai pubblici uffici dei tre indiziati, una perizia sulle strutture e i servizi dell'istituto, un'indagine sul lavoro che gli internati svolgono per conto di ditte private, l'acquisizione agli atti di una bobina in cui è registrata la confessione-denuncia di un ex recluso. Il sostituto procuratore Sant'Elia non ha ancora mandato a ritirare la bobina, che è uscita clandestinamente dal carcere di Sulmona dove Roberto Candita, 32 anni, di Franca villa Fontana (Brindisi), condannato per rapina, è rinchiuso.
Noi oggi abbiamo sentito la sua voce, il racconto della sua storia e l'intervista che egli fa ad altri detenuti come lui finiti nei “lager” tristemente famosi di Aversa, Barcellona, Montelupo, dove vengono inviati per punizione - facendoli passare per pazzi - quanti “ribellandosi a ingiustizie e angherie, sì ribellano a strutture inumane e fasciste”. Racconta Roberto Candita racconta con voce piana “come possono essere i manicomi giudiziari d'Italia: dove ho avuto la sfortuna di incontrare gente sana di mente mandata fra i pazzi veri, gente che ragionava e con l'andare del tempo, grazie a "cure" micidiali, ha finito per perdere la ragione o la vita”. Le sue parole cadono agghiaccianti, intercalate da pause dolorose. Egli evoca l'umiliazione del letto di contenzione, “allora sei nudo e in mezzo alle tue feci, legato e in mano a pazzi, cioè ai piantoni che sono i "prosciolti", che ti picchiano quando ne hanno voglia, perché li chiami e chiedi un goccio di acqua, per sadismo, per divertire le guardie che stanno a guardare”. Racconta come si diventa omosessuali. Come “è impossibile non pensare a una vendetta, e allora pensi al Capo dello Stato, ai reggitori del manicomio, ai ministri, e vorresti che fossero loro a provare quello che ti tocca subire”.
Fa nomi precisi. Lancia terribili accuse: i pazienti usati come cavie, pestaggi brutali, corruzione del personale di custodia. Descrive il suo arrivo ad Aversa, nel terzo reparto che è chiamato “Terapeutico”. La terapia consiste nei letti di contenzione: li ce ne sono una settantina. Nel suo camerone erano legati in otto. Parla di Matteo, di Foggia, ridotto pelle e ossa: era legato da nove anni e qualche mese, lo scioglievano solo per un quarto d'ora ogni tanto, muoveva solo le gambe e non ragionava più, non ricordava neppure se aveva famiglia. Dice di un ragazzo di sedici anni, napoletano, che soffriva e si lamentava per dolori di stomaco: una sera gli fecero un'iniezione, la mattina era morto. C'era poi il medico. “Passava e chiedeva: "Che giorno è oggi?". Se uno è legato da mesi, ha perso il senso del tempo, e allora non sa che rispondere. Lui diceva: "Vedi? Sei senza la ragione. Devi restare legato ancora, facciamo altri quindici giorni". Se uno implorava o piangeva, lui aggiungeva: "Sei troppo emotivo. Meglio un altro mese di letto"“. Ricorda poi Giovanni, diciannove anni, di Santa Maria Capua Vetere. “Era la cavia del camerone. Tutte le sere gli facevano punture dolorose senza autorizzazione di nessun medico. Per mezz'ora urlava, stralunava gli occhi, faceva bava alla bocca. Poi si addormentava”. Nei documenti ufficiali queste atrocità non figurano.
Oggi alla procura della Repubblica è stato depositato il verbale dell'ispezione compiuta il 30 gennaio scorso dal giudice Sant'Elia, dai periti Scala (psichiatra) e Durante (medico legale). Ci sono critiche per le condizioni igieniche del manicomio, per l'assistenza sanitaria (quattro medici su ottocento malati, le iniezioni praticate da un agente affiancato da un pazzo, otto agenti con informazione paramedica), per i locali sovraffollati e malsani, per le terapie usate. Alle cento pagine della relazione c'è un breve allegato steso dal procuratore Sant'Elia. Il magistrato riferisce che durante la visita al manicomio fu praticamente aggredito da detenuti che proclamavano: “Qui stiamo benissimo, siamo curati e trattati umanamente. Il direttore è una brava persona. Quanto raccontano i giornali è pura invenzione, un'autentica calunnia”. Non basta. Di suo il magistrato riferisce di aver visto “giovani che giocano, tendine alle finestre, tappeti, registratori, televisori, macchine da scrivere e - a tavola - tovaglie colorate e stoviglie di porcellana bianca”.
La Stampa 23 marzo 1975