Nando Dalla Chiesa, il figlio del Generale dei Carabinieri nominato Prefetto di Palermo e ucciso il 3 settembre 1982, ha sollevato una questione di assoluta rilevanza su Il Fatto Quotidiano. Si parla di lotta alle mafie da parte dello Stato che non offre nessun tipo di formazione suull'argomento ai suoi Magistrati che poi quelle mafie dovrebbero combatterle.
A giurisprudenza, il tema "criminalità organizzata" non è di casa: "Si può indossare la toga senza sapere nulla di cosche". Quella di oggi è una piccolissima storia, che serve a spiegarne una molto più grande, portandoci diritti dall'università ai palazzi di giustizia.
Tutto nasce da una studentessa di giurisprudenza, a Milano. Roberta (nome di fantasia) mi scrive chiedendo un appuntamento. Una lettera gentile, dalla quale traspare la richiesta di un consiglio per i propri studi, nulla di più. Le suggerisco di venire al ricevimento studenti. Quando viene, è lei a ricordarmi la lettera.
E appare visibilmente imbarazzata, come se dovesse comunicarmi una notizia sgradevole. "Io l'ho conosciuta a Sesto San Giovanni", mi spiega. "L'ho sentita parlare lì la prima volta nella mia scuola, un istituto dei salesiani. Si ricorda?". Sì, ricordo. "Ecco", continua, "rimasi molto colpita dal suo discorso sul bisogno di legalità, sulla presenza delle mafie nel nostro Paese. Tanto che decisi allora che avrei voluto fare il magistrato".
Resto lusingato da quella conseguenza mentre lei prosegue: "Ed è per questo che mi sono iscritta a giurisprudenza, per entrare nella magistratura e combattere la mafia". Non faccio in tempo a completare il mio stato di gratificazione che il suo viso si trasfigura di colpo. "E invece lo sa che sono arrivata al quarto anno e ancora a lezione nessun professore ha mai nominato la parola mafia?".
A questo punto, improvvisamente, Roberta scoppia a piangere. Forse per l'emozione, certo per la rabbia e la delusione chissà quanto a lungo trattenute. Chiede quali corsi può frequentare da noi a scienze politiche, le do qualche consiglio, e un poco si riprende. Il fatto è che mi si è conficcato nella testa quel pianto: convenuta qui per combattere la mafia, e ancora in tre anni nessun professore ha mai nominato la parola. Ecco, partiamo di qua, allora, per capire che cosa succede nei nostri tribunali, dove stanno gli altri e più importanti protagonisti di questa storia collettiva.
Per capire perché ci siano voluti decenni per ottenere il riconoscimento della mafia in Piemonte e soprattutto in Liguria. Perché celebri clan siano stati definiti mafiosi in Lombardia, di cui avevano conquistato i cantieri con le bombe, solo dopo una sfilza di sentenze benevole o tolleranti. E perché, per parlare di attualità, sia una fatica inenarrabile fare riconoscere la presenza mafiosa in una capitale, Roma, che proprio non ama sentirne parlare. Complicità? Paura? Quieto vivere? Opportunismo?
Forse, alternativamente o insieme, anche questo. Ma prima, un fatto incontrovertibile: si può diventare magistrati senza sapere nulla di mafia. L'ignoranza, ecco il motivo principale. Si può concludere una facoltà di giurisprudenza senza avere mai udito la parola mafia (in realtà a Milano alla fine non avviene). Si può diventare magistrati senza che la propria conoscenza dell'argomento sia mai stata verificata da chicchessia, dipende dai temi scelti per le prove scritte e dalle domande delle commissioni all'orale.
E si può restare magistrati, a maggior ragione, senza saperne un piffero, perché i corsi di aggiornamento sono volontari. Morale: si può arrivare a giudicare in processi di mafia, che sono per definizione tra i più complessi e insidiosi immaginabili, senza avere la più pallida idea della materia su cui si deve giudicare. Senza essersi studiati la lettera, la ratio, la genesi, gli scopi, del 416 bis, su cui non per caso il giudice Giuliano Turone ha scritto un monumentale manuale di 700 pagine. Per inventarsi di fatto il codice penale e sostituirlo con "la mafia secondo me".
Dove, ovviamente, il "secondo me" è il medesimo inzeppato di stereotipi che governa il senso comune degli italiani. Non più la definizione giuridica, che fissa specifici requisiti di esistenza del fenomeno, ma una personale e abborracciata definizione sociologica. Siamo al rovesciamento di una storica pretesa. Di quando - nel 1966 - il procuratore della Cassazione Tito Parlatore chiedeva l'assoluzione degli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, perché la mafia era "materia per sociologi" e non "per tribunali".
Ora, infatti, sono i magistrati a volere fare i sociologi. E da (confusi) sociologi a decidere nei tribunali. Rieccoci così al grido di dolore di Roberta: può un Paese, che da160 anni affronta una criminalità potente e sanguinaria, non studiarla nemmeno là dove si forma chi deve amministrare la giustizia? E può, quel Paese, giudicare una tale criminalità non "in nome della legge" ma in nome di disordinate e personalissime opinioni?