I detenuti in regime di 41 bis (il cosiddetto carcere duro per i mafiosi) non devono scrivere lettere a "Nessuno tocchi Caino", associazione radicale che si batte per l’abolizione della pena di morte nel mondo.
La circostanza è stata ribadita in un procedimento giudiziario, gestito dai tribunali del Piemonte, che riguarda Giuseppe Falsone, 48 anni, originario di Campobello di Licata, nell'Agrigentino, considerato dagli inquirenti uno dei capi di Cosa nostra nella provincia di Agrigento, arrestato nel 2010 a Marsiglia dopo anni di latitanza e che non hai mai dato segnali di pentimento e né ha mai collaborato con la magistratura.
Falsone, rinchiuso a Novara, aveva chiesto a una congiunta di inviare 200 euro al proprio legale per l’iscrizione al Partito Radicale; «in realtà - si legge nelle carte del procedimento - era quasi certo che la somma fosse indirizzata a sostenere l'associazione Nessuno tocchi Caino, cosa che però è vietata da una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap)».
Il magistrato di sorveglianza della città piemontese aveva autorizzato il trattenimento della missiva con una decisione confermata dal Tribunale di Torino nel 2017 e resa definitiva nei giorni scorsi dalla Cassazione.
Gli ermellini hanno fatto notare, nei giorni scorsi, che «la circolare del Dap aveva vietato rapporti epistolari fra detenuti sottoposti al 41 bis e un’associazione, al fine di evitare l'insorgere di proteste da parte della popolazione detenuta».
A questa disposizione i supremi giudici non hanno mosso rilievi perché è «dettata da ragioni di sicurezza e di ordine nelle carceri in aderenza a quanto permesso dall’ordinamento penitenziario». Per bloccare la corrispondenza - ha ribadito la Corte Suprema - «non è necessaria la prova della commissione di reati o della pericolosità della missiva, ma è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti».
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