Condannato a 14 anni il detenuto che minaccia di morte otto ostaggi
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STORIA Condannato a 14 anni il detenuto che minaccia di morte otto ostaggi 20/08/1975 

Nove giorni fa, a San Gimignano, la rivolta nel carcere di S. Domenico: oggi, in tribunale, a Siena, la condanna a quattordici anni di reclusione per Saverio Turrini, il superstite delle ventiquattr'ore di rabbia, smorzate nel sangue di Renato Mistroni, il suo compagno d'avventura, ucciso dal fuoco dei tiratori scelti, alla fine di un sogno impossibile di fuga e di libertà. Un dibattimento veloce per una camera di consiglio ancora più rapida: venti minuti per quattordici anni di carcere.

La logica del rito per direttissima è stata soddisfatta; ha prevalso l'orientamento della procura generale di Firenze, ma forse, il diritto, nella sua esigenza di certezza, è stato in parte sacrificato. Saverio Turrini l'ha capito e dal banco degli imputati ha risposto, sprezzante, con l'unica filosofia che a 28 anni appena compiuti gli resta: quella dell'evasione. E' il suo credo e l'ha dichiarato dopo la sentenza. “Mi danno sempre quattordici anni - ha detto con un sorriso incerto - è già la terza volta, ma ho tre evasioni sulle spalle, ci sarà anche la quarta”. Ha presentato i polsi ai carabinieri di scorta e li ha offerti ai ferri. Un'ultima frase: “Una pistola in mano - ha detto - e si vedrà chi è Turrini”.

In realtà oggi, a nove giorni di distanza, senza le armi, Turrini è apparso diverso, ma mai rassegnato. Prima della rivolta di San Gimignano sarebbe uscito di prigione nel 1993, adesso supera il duemila di sette anni. Non ha niente da perdere, lo dice, ed ancora deve essere processato per l'omicidio a Brescia di un agente di custodia, mentre dei quindici mandati di cattura per rapina e furto che gli pendono addosso, soltanto quattro sono arrivati al processo: per gli altri c'è ancora tempo. Ha ammesso tutte le accuse, dal progetto di rivolta all'arrivo per pacco postale delle armi; dalla cattura degli 8 ostaggi minacciati di morte al tentativo di fuga; dall'estorsione dei corpetti antiproiettile sino al danneggiamento di due cuscini e degli arredi della casa di reclusione. Su due punti soltanto ha taciuto: non ha voluto rivelare il nome di chi gli ha spedito le armi, né ha risposto alle domande sui due colpi di pistola esplosi contro il padre di Renato Mistroni, chiamato quella notte nel carcere di San Gimignano dalla magistratura per convincere il figlio a gettare la rivoltella e a farsi catturare. Se ne è stato con lo sguardo abbassato per tutto il resto del dibattimento. E' esploso soltanto quando è stato chiamato a deporre il padre di Mistroni, Ezio, un uomo duro che avevamo visto impassibile, di pietra, dinanzi al cadavere del figlio. Oggi, anche lui, è apparso diverso: stava con il fazzoletto in mano, sempre pronto alle lacrime. Al pubblico ministero aveva dichiarato che a sparargli era stato Turrini per scacciarlo e mettere fine al colloquio con il figlio. Oggi è apparso meno preciso, anche se non ha esitato a far ricadere ogni responsabilità su Saverio Turrini. “Mio figlio - ha detto - alle mie parole sembrava persuaso: sembrava propenso a lasciare stare, a gettare la pistola”. Presidente: “Chi le ha sparato?”. Mistroni: “Era lui che non lo lasciava andare, io misi il fazzoletto agli occhi perché piangevo e ho sentito due colpi di pistola”. Ripete il gesto, si benda gli occhi e dichiara: “Prima di asciugare le lacrime avevo dinanzi a me quello lì e mio figlio: ho sentito sparare, mi sono scoperto e ho visto soltanto Turrini, Renato si era già allontanato”.

Turrini si alza e interrompendo grida: “Adesso non trascendiamo, il troppo è troppo, lo sai benissimo: è tuo figlio che ti ha sparato addosso: io non ho esploso un colpo!”. Il presidente non fa fatica a riportare la calma nell'aula che accoglie con un mormorio la rivelazione. Ezio Mistroni tace, e il suo silenzio non lascia intendere se per lui quella di Turrini è una rivelazione o una verità che già conosce, ma gli costa troppo ammettere. Prima Turrini non aveva voluto rispondere alle domande; adesso è il presidente che non si dilunga sull'episodio. Si limita a dire: “Furono trovati due bossoli di una calibro 7,65, era la rivoltella di Mistroni; Turrini impugnava due armi da guerra di calibro superiore”. E' un'ammissione importante che indurrà più tardi il pubblico ministero, Romoli, a chiedere l'assoluzione per il reato di violenza privata, ma aggiungendo: “Per l'imputato, la condanna deve essere esemplare: ventun anni”.

Prima che il pubblico ministero facesse le sue richieste, c'era stata la sfilata di testi e di parti lese: gli agenti di custodia presi in ostaggio, gli ufficiali dei carabinieri e il questore di Siena che quella notte aveva la responsabilità della piazza. Nessun magistrato e nessun giornalista è apparso dinanzi al tribunale, ma ciò è stato voluto: se il pubblico ministero avesse considerato tra gli ostaggi anche il pretore di Poggibonsi e il giudice Margara, che pure restarono per un'ora sotto la minaccia delle armi, il processo non sarebbe stato celebrato per direttissima: la competenza sarebbe andata infatti, come vuole la legge quando c'è un magistrato parte lesa, ad un altro tribunale. A chiedere la presenza dei due magistrati e dei giornalisti era stato, all'inizio del dibattimento, Saverio Turrini. Il difensore d'ufficio aveva aggiunto, come seconda richiesta, la perizia psichiatrica per l'imputato. Sono state respinte entrambe al termine di una breve riunione in camera di consiglio. Turrini non è sembrato scomporsi: si è limitato a dire: “In appello, ci saranno giornalisti e magistrati”. Poi è rimasto un attimo sorpreso: passando, gli aveva teso la mano Marco Manca, il medico condotto di San Gimignano che il giorno della rivolta si era consegnato volontariamente in ostaggio, pur di consentire il ricovero in ospedale del magistrato Pilloni, colpito da una crisi cardiaca. Una stretta di mano accolta con un sorriso timido e tanta tristezza nello sguardo spento.

La Stampa 20 agosto 1975


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