Una giornata con le guardie carcerarie di Cuneo. Ho trascorso un giorno nel carcere di Cuneo. Intendiamoci, non ho fatto a pugni con nessuno, non ho oltraggiato un vigile urbano, né c'erano a mio carico ordini di carcerazione di alcun genere. Preciso ancora che non ho visitato il nuovo carcere di Cuneo, iniziato quasi 20 anni fa e sempre incompiuto. Di quest'opera, che è un esempio emblematico di malgoverno e di sperpero di denaro pubblico e di cui si dice - “ma chi ci crede più?” - che sarà pronto per la fine dell'anno, accenneremo più avanti.
Ho invece chiesto ed ottenuto di dividere una giornata, un turno, per essere più precisi, con gli uomini preposti alla custodia di 51 detenuti - 44 uomini e 7 donne, una delle quali, una zingara tedesca, rinchiusa poco dopo il mio arrivo - nel vecchio carcere giudiziario di via Leutrum, dal quale, a febbraio, tentò di evadere Alberto Franceschini, il “luogotenente” delle “Brigate rosse” e, 15 giorni fa, fuggirono 6 detenuti comuni (tre sono stati ripresi), durante lo spettacolo televisivo serale. I sei avevano immobilizzato i tre agenti del turno serale: uno di questi, il capoposto Ricciardi, è stato duramente colpito al capo e ferito gravemente. Naturalmente, non ho avuto contatti con i detenuti, essendo vietato dal regolamento: occorreva un'autorizzazione ministeriale che, ben difficilmente, sarebbe stata concessa. Del resto, mi interessava soprattutto vedere come si svolge la vita in un carcere, al di qua delle celle, provare uno dei mestieri fra i più “duri” al servizio dello Stato: il lavoro, la camera, le paghe.
Ho scelto 11 uomini - due sottufficiali e 9 guardie - come campione dei 13.500 agenti di custodia italiani. L'opinione pubblica è rimasta scossa da quanto è accaduto fra il 17 e il 18 febbraio: sei evasi dal carcere di Cuneo, cinque da Reggio Emilia e l'attacco armato che ha portato alla fuga, dal carcere di Casale, di Renato Curcio, il capo delle “Brigate rosse”. Questi fatti hanno riacceso le polemiche sulla situazione delle carceri italiane, dopo le rivolte e le devastazioni avvenute, nel recente passato, nelle case penali e nei reclusori di alcune grandi città. Dunque ora, si è chiesta la gente, questi “fenomeni” accadono anche nelle carceri di provincia? Di fronte allo spettacolo di “secondini” - un vecchio termine che fa arrabbiare gli agenti - imbavagliati, legati, percossi e feriti, di reclusi o “liberatori” esterni, armati di tutto punto, molti si sono domandati: “Perché le guardie sono disarmate, quando i custoditi spesso riescono ad avere delle armi?”.
E' per rispondere a qualcuno di questi interrogativi, che alle 8,30 di ieri, ho bussato al portone del carcere di Cuneo, ricevuto dal piantone e dal comandante maresciallo Giuseppe Gambella. Nella prigione, la giornata era già cominciata alle 7, con la sveglia ai detenuti ai quali, mezz'ora dopo, è stato portato il caffellatte. Alle 9, dopo il controllo delle celle, i carcerati sono usciti in corridoio o nel cortile, per l'ora di aria che si è ripetuta alle 14. Il pranzo è alle 12 e la cena alle 17,30, dopo il secondo controllo. Alle 18, si accendono i televisori: ce ne sono 16, uno per cella che può ospitare da 2 a otto persone. Nell'ufficio del comandante entra un agente, per ritirare lo stipendio. Paghe, fatture, denaro dei reclusi, note delle medicine e delle cure, tutto è amministrato dal maresciallo Gambella: sono 70-80 milioni annui. L'agente ritira le banconote e il comandante lo richiama: “Just, prenda anche le 240 lire”. “Comandante, vedo che dà del lei ai suoi uomini, anche ai giovanissimi". “Sempre, è prescritto dal regolamento che da 25 anni impone dì dare del lei anche ai detenuti. So che in altre carceri non avviene così, ma io seguo questa prassi: dò del lei anche a coloro che espiano una condanna definitiva. Siamo in un Paese democratico, anche se imperfetto e con uno stato di scollamento dei valori e delle responsabilità nelle varie amministrazioni pubbliche.
Qui dentro io mi preoccupo di assicurare il massimo rispetto della persona umana, anche di chi ha sbagliato”. “Comandante, perché gli agenti non portano le armi durante il servizio?”. “Lo vieta un regolamento internazionale dei luoghi di pena. E' giusto che sia così”. “E' sempre di questa opinione, anche dopo i recenti episodi?”. “Certamente, lo considero una difesa, una maggiore garanzia per noi. L'arma sarebbe una provocazione per il recluso e un incentivo a cercare di impadronirsene”.
Fanno orari duri questi ragazzi. Ogni turno dura 8 ore filate (dalle 8 alle 16, dalle 16 alle 24 e poi il turno notturno che è il più massacrante); il piantone dorme e rimangono in due. Nove agenti in servizio significa, tre uomini per turno: il piantone, all'ingresso, il capoposto che si occupa anche dell'ufficio matricola e l'agente che sorveglia i bracci penali. Si va avanti così anche per sette giorni consecutivi, prima di avere un giorno di riposo. Un tempo, in via Leutrum erano rinchiusi soprattutto ladri di galline e ubriaconi; ora, con l'incremento delle rapine, di reati fino a pochi anni fa sconosciuti (sequestri, crimini politici), il carcere cuneese, che ha ancora dei posti vuoti, deve accogliere detenuti importanti e giudicati pericolosi, inviati dalle grandi città.
Gli agenti di custodia che, secondo l'annuario del 1974, erano in Italia 14.400, sono oggi diminuiti di un migliaio. Servizi stressanti e paghe appena accettabili: un agente di prima nomina (dopo 6 mesi di scuola a Cairo Montenotte o Portici) guadagna 174 mila lire al mese. Dopo due periodi di ferma, cioè nove anni di servizio, 205 mila lire. Un appuntato con due figli o un brigadiere, grazie all'indennità di alloggio, arriva a 230 mila lire. Solo un maresciallo, all'inizio della carriera, supera le 300 mila lire. E' un mestiere sgradevole e sgradito, accettato per il 90 per cento da giovani del Mezzogiorno e delle isole.
Sono le 17 e anche il mio turno è finito. Prima di uscire in via Leutrum, sono tutti a stringermi la mano: qualcuno ha mostrato loro solidarietà. Per me è stata un'esperienza dalla quale ho imparato molte cose.
La Stampa 4 marzo 1975