Nicola Minichini è uno dei tre agenti della Polizia Penitenziaria imputati nel primo processo per la morte del giovane romano, deceduto all’Ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009, e assolti con formula piena in tutti e tre i gradi di giudizio per non aver commesso il fatto. Ci ha raccontato il suo calvario, un calvario non ancora finito.
Esistono storie che travolgono come fiumi in piena e non per la loro irruenza, quanto per la loro discreta ma possente dignità. Storie che tessono trame silenziose di incredulo dolore e di un’impotenza che non è mai rassegnazione. Storie alla ribalta, loro malgrado, e che nessuna successione di parole potrà mai, realmente, raccontare. Non fino in fondo. Come la storia di Nicola Minichini e della sua famiglia.
Tra le pieghe degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi e del calvario (umano e giudiziario) iniziato dopo la sua morte, a ben guardare si riescono a scorgere tanti altri volti, esistenze travolte – seppur in modo diverso – da una violenza senza senso che ha strappato via non solo la sua di anima, ma ha falcidiato la quotidianità di un numero di persone molto più elevato di quel che si riesce effettivamente a percepire attraverso i vetri opachi del circo mediatico che da anni racconta la sua vicenda.
QUEL GIORNO ERO IN SOSTITUZIONE DI UN COLLEGA
«Quel giorno non dovevo nemmeno essere di servizio in quel reparto: ero in sostituzione di un collega. Avevo chiesto il trasferimento alla sezione penitenziaria del Tribunale di Roma dopo la nascita del primo figlio. Come dissi a mia moglie, immaginavo che lì sarei stato più tranquillo. Era il mio auspicio all’epoca e invece, adesso, sono tutt’altro che un uomo tranquillo né so se tornerò mai ad esserlo». Nicola Minichini è uno dei tre agenti della Polizia Penitenziaria imputati nel primo processo per la morte del giovane romano, deceduto all’Ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009, e assolti con formula piena in tutti e tre i gradi di giudizio per non aver commesso il fatto. Inizialmente accusati di omicidio preterintenzionale, il capo di imputazione fu ridotto, in sede di udienza preliminare, a lesioni aggravate dai futili motivi e dal fatto che ad aver tenuto la condotta delittuosa fossero stati dei pubblici ufficiali.
«Quel 16 ottobre, vidi Stefano Cucchi per 45minuti, non di più. Ho flash costanti che mi riportano a quei momenti. Davanti a me avevo un giovane come, purtroppo, ne passano tanti in quelle celle. Lui arrivò, per competenza, al mio ufficio alle 13:30, ceduto – come si dice – in consegna dai carabinieri che lo avevano arrestato, dopo la convalida del fermo in udienza, per espletare la procedura di trasferimento in carcere. La cosa che mi colpì nel vederlo fu la sua magrezza, la presenza di segni rossi sotto gli occhi e un rossore sulla guancia. Avendomi chiesto una medicina per il mal di testa che io non potevo somministrargli, chiesi l’intervento del medico del Tribunale perché lo visitasse e, nel caso, gli desse i medicinali che mi aveva richiesto. Abbiamo ed ho agito secondo coscienza e nel rispetto delle regole». È stata la correttezza, insomma, ad aver salvato, dopo decine di udienze (50 solo nel processo di primo grado, 6 in quello di secondo), la fedina penale di Nicola senza però riuscire a restituirgli quanto sottrattogli in sette anni di battaglie legali: la serenità, la dignità.
Quello che abbiamo vissuto è stato un processo pubblico, siamo stati messi alla gogna sulla pubblica piazza, dove tutto ciò che riguardava il nostro caso è stato puntualmente rivelato.
HO VISSUTO COME UN ANIMALE BRACCATO
Da carceriere a (in un certo qual modo) carcerato, Nicola Minichini ha vissuto, malgrado l’innocenza, come un animale braccato, condannato, prima ancora che dai tribunali che lo avrebbero poi assolto, dai media che gli hanno cucito sulla pelle lo stigma del mostro. «Scoprii di essere indagato alla televisione. Non dimenticherò mai quel venerdì e la notizia letta all’edizione delle 12 del tg di RAI2 che rese noti i nomi degli indagati per la morte di Stefano Cucchi con la pubblicazione dell’avviso di garanzia fatto scorrere sul video in modo costante e ripetitivo. La notifica di un atto tanto riservato sarei andato a firmarla solo il giorno seguente. Quello che abbiamo vissuto è stato – io dico sempre – un processo pubblico, nel senso che siamo stati messi alla gogna sulla pubblica piazza, dove tutto ciò che riguardava il nostro caso è stato puntualmente rivelato».
Una famiglia che si ritrova per il pranzo intorno alla tavola. Una giovane coppia del Sud, emigrata come tante per seguire il lavoro, con due figli piccoli di 11 e 6 anni. È questa la scena. «Non scorderò mai quel venerdì: ascoltai il suo nome al telegiornale ed in tutti i programmi televisivi e gli chiesi terrorizzata cosa fosse successo. Sapevo che Nicola era preoccupato perché dalla morte di quel ragazzo erano iniziati problemi a lavoro ma lui non diceva molto e io non avrei mai e poi mai pensato che saremmo potuti finire nella spirale infernale che ci ha poi risucchiati». Margherita ha la voce rotta dall’emozione. Conobbe Nicola al mare da ragazza, durante le vacanze di tanti anni fa. Fidanzati dal 1988, si sono sposati nel ’96 e lei lo ha seguito a Roma. Da Avellino. Una vita insieme, messa a dura prova da quella che Nicola definisce una “macchina perfetta”, che ha finito per cospargerlo di fango e disonore. «Abbiamo saputo leggendo gli atti del processo di essere intercettati. I nostri telefoni, quelli di tutta la famiglia - compresi i genitori e figli - erano sotto controllo. L’avvocato ci disse che se Nicola fosse stato condannato, avrebbero potuto rivalersi sulla casa per il risarcimento. Allora cominciai a convivere col terrore di dover togliere ai nostri bambini finanche un tetto dalla testa. Per non parlare del vuoto che sentii crescere intorno a noi e, soprattutto, intorno a Nicola».
Tutti si dichiaravano certi della mia innocenza ma io sentivo, sotto la pelle, che l’onta del sospetto mi aveva ormai sporcato.
LO SGUARDO DEI MIEI FIGLI, IL SOSPETTO DEGLI AMICI
Gli amici, poco a poco, si dissolsero nella nebbia del dubbio, nella foschia del sospetto che inevitabilmente finì per avvolgere l’immagine di Nicola Minichini, come uomo, come poliziotto e, a tratti, persino come padre. «Ci sono state persone che sono arrivate a cancellare il mio numero di cellulare pur di non avere più nulla a che fare con me o per paura di essere coinvolte in chissà quale “guaio giudiziario”. Per non parlare dello sguardo dei miei figli, del silenzio dei vicini. Tutti si dichiaravano certi della mia innocenza ma io sentivo, sotto la pelle, che l’onta del sospetto mi aveva ormai sporcato. Ho dovuto combattere per evitare che, oltre al mio nome, si conoscesse la fisionomia del mio volto: sarebbe stata la fine. Nove anni fa, non c’era uno stadio, una strada, una qualsivoglia manifestazione pubblica dove non si vedessero sventolare striscioni che chiedevano a gran voce “verità per Stefano Cucchi”. Era una caccia spietata alla “guardia infame” che aveva distrutto di botte quel ragazzo. Non potevo più accendere la radio o la tv senza sentirmi dare del mostro, dell’assassino: se solo pensi che in Italia il reato di tortura è stato introdotto “per causa mia”. Benché fossi una persona perbene, malgrado la mia onestà, la mia totale innocenza, dovetti cambiare scuola a mio figlio grande per evitargli problemi con i compagni e - forse - con qualche professore. Non dimenticherò mai che, nel giorno dell’udienza per il rinvio a giudizio, i colleghi della penitenziaria mi fecero lasciare l’Aula passando attraverso i corridoi riservati ai detenuti per impedire alla marea di giornalisti, cameramen e fotografi presenti di riprendermi in viso. Una marea! E non esagero. Nemmeno in casa mia stavo più bene. Noi viviamo in un quartiere popolare di Roma, dove ci sono buoni e cattivi, dove c’è un centro sociale molto attivo: se avessero saputo che faccia avesse Nicola Minichini, avremmo rischiato grosso sia io che la mia famiglia».
RINGRAZIO ILARIA CUCCHI: MA C'ERA IN PIEDI UNA MACCHINA PERFETTA PER ACCUSARCI
Ringrazio Ilaria Cucchi perché se non fosse andata fino in fondo oggi non potrei essere qui a chiedere l’unica cosa che voglio mi venga restituita: la dignità
Malgrado gli sforzi per tutelare quel che restava della sua privacy – ragione per la quale non vedrete neanche qui immagini di Nicola Minichini – informazioni estremamente personali sul suo conto presero a circolare. «Ricordi i manifesti di morte “Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte”? Sai dove furono affissi quei manifesti? In un solo paese della provincia di Napoli: il mio paese natale e dove vive la mia famiglia. Un intero paese tappezzato: una specie di monito, quasi a far sapere a tutti chi fosse la “guardia della vergogna”. Come facevano, gli autori di quel gesto, a sapere dove vivessero i miei? Ecco perché sostengo che il nostro sia stato un processo pubblico, parte di un meccanismo molto più grande di me, una “macchina perfetta” che era in funzione da chissà quanto tempo». Una macchina nella quale qualcosa, ad un certo punto, si è inceppato, portando la giustizia al processo bis.
«Ringrazio Ilaria Cucchi perché se non fosse andata fino in fondo ottenendo la riapertura delle indagini che hanno condotto al secondo procedimento penale, oggi non potrei essere qui a chiedere l’unica cosa che voglio mi venga restituita: la dignità. La mia dignità di uomo e lavoratore. Da quando questo inferno ci ha travolti, non dormo più la notte e sento di non essere più padrone della mia vita. Il processo ci ha costretti a sostenere spese folli tra difesa e perizie medico-legali: parcelle insostenibili per un semplice dipendente statale, in una famiglia monoreddito. Ora non posso che ringraziare il mio avvocato, Diego Perugini, che in questi lunghi anni di calvario non solo non mi ha ridotto sul lastrico ma mi è sempre stato vicino, comprendendo quali fossero i miei reali mezzi economici. Sono state la professionalità con cui ha condotto delle tenaci indagini e la sicurezza sempre riposta nella mia piena innocenza - malgrado tutti sostenessero il contrario - a salvarmi da una condanna che consideravo certa, scontata, voluta da tutti. Oggi Diego per me è una sorta di “fratello”».
DOPO L'ASSOLUZIONE ERAVAMO QUELLI CHE SAPEVANO MA NON AVEVANO PARLATO
L’ombra del sospetto non ci ha mai lasciati. Noi eravamo sempre quelli che “sapevano e non hanno parlato” o che “avevano coperto qualcuno o qualcosa”
Malgrado l’assoluzione, però, «l’ombra del sospetto non ci ha mai lasciati. Noi eravamo sempre quelli che “sapevano e non hanno parlato” o che “avevano coperto qualcuno o qualcosa”. Senza il processo bis non avrei mai potuto chiedere la parola per rivendicare la riabilitazione della mia persona. Sostenere, da innocente, un processo penale per omicidio – perché questa era l’accusa mossaci dai media e dalla pubblica opinione – in Corte di Assise, innanzi ad una giuria popolare fatta di cittadini che la sera prima avevano visto in tv le foto di un ragazzo morto per colpa dello Stato, nella stessa aula bunker dove si sono celebrati processi mafiosi, dalla banda della Magliana a Mafia Capitale, è qualcosa che manderebbe fuori di testa chiunque. Io rivoglio la mia dignità e questo nessun tribunale e nessun risarcimento potrà restituirmela».
Una dignità che non è solo quella di Nicola ma di un’intera famiglia travolta da un dramma giudiziario ingiusto e da un assalto mediatico spietato. «Quando la Presidente del Tribunale lesse la sentenza di assoluzione al termine del processo di I grado, ricordo le urla delle persone presenti in Aula che gridavano a Nicola e agli altri imputati “assassini”. Ricordo che ci lanciarono contro di tutto e ricordo di essere stata trascinato via per evitare il linciaggio. Furono attimi di confusa concitazione: Nicola e i suoi colleghi erano stati assolti dalla Giustizia, eppure la folla continuava a chiedere la loro testa. Oggi sento qualcuno, tra quelli che sono passati dal banco dei testimoni a quello degli imputati, parlare delle loro famiglie e mi chiedo: e le nostre di famiglie? In nove anni di silenzi hanno mai pensato a noi? Ai nostri genitori? Ai nostri figli? A quello che abbiamo dovuto togliere loro per sostenere un processo ingiusto? Io, da mamma, non voglio null’altro se non la restituzione di quello che abbiamo dovuto soffrire per difenderci da un’accusa falsa ed infamante che per anni ci ha tolto la serenità familiare e la certezza nel futuro».
RICORDO I CARABINIERI CHE VENNERO A TESTIMONIARE AL "NOSTRO" PROCESSO CON GLI ALAMARI SULLA GIACCA IN UNIFORME PERFETTA
Guardo i militari oggi imputati e ripenso a quando venivano in Aula a testimoniare nel “nostro” di processo: le uniformi perfette con gli alamari appuntati sulla giacca. All’epoca loro erano lo Stato e io l’infame che aveva tradito la divisa
Ascoltando Margherita si palesa tutta la forza devastante di una vicenda che oltre a quella di Stefano Cucchi e della sua famiglia ha travolto tante altre vite: una marea nera di vergogna e di morte che ha distrutto ciò che ha incontrato lungo il cammino. «Guardo i militari oggi imputati e ripenso a quando venivano in Aula a testimoniare nel “nostro” di processo: le uniformi perfette con gli alamari appuntati sulla giacca. All’epoca loro erano lo Stato e io l’infame che aveva tradito la divisa ed era venuto meno ai suoi doveri. Non dico che non credo più nelle istituzioni, assolutamente: non si può pensare che per una mela marcia tutti debbano pagare. Anche questo è ingiusto. Ho vissuto momenti di commozione quando, nell’udienza del 24 ottobre il pm Musarò - che ringrazio - in Aula e ha pubblicamente manifestato la propria solidarietà a noi tre agenti che, con un accusa “infamante” mossa in un processo senza eguali, abbiamo avuto la vita stravolta e rovinata per sempre».
ORA AL LAVORO HO PAURA DI PRENDERE DECISIONI: RIVOGLIO LA MIA DIGNITA'
Nella dimensione privata, ma anche in quella lavorativa. «Questa vicenda mi ha tolto la serenità e la sicurezza guadagnate in tanti anni di esperienza lavorativa. Posso dire di esser stato fortunato perché l’Amministrazione Penitenziaria, anziché sospenderci, ci ha trasferiti d altri uffici e mansioni, permettendoci di poter continuare a lavorare e, nel mio caso, di mantenere i mezzi di sostentamento per la famiglia, per il mutuo della casa. E tuttavia non è stato semplice: ho avuto bisogno di prendere di un periodo prolungato di “malattia” perché ero cosciente di aver perso il mio equilibrio e di non poter continuare a tenere un’arma tra le mani. Un altro collega, più anziano, è stato messo a riposo, in pensione. Adesso io svolgo tutt’altra mansione eppure, ogni qualvolta che c’è da prendere una decisione, ho paura: paura di trovarmi nuovamente travolto. Ora più di prima mi fermo spesso a pensare a quanto mi è accaduto e ancora accade, chiedendomi in quante celle possano esserci rinchiuse persone ingiustamente condannate. E soprattutto e mi chiedo come sia riuscito a superare un simile “mostro”. Ma la cosa più vera di tutte è che rivoglio la mia dignità. Io sono una persona perbene».
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