L'indagine della procura coinvolge la catena di comando di Roma. La manipolazione decisa in un summit negli uffici di Tomasone. Nuovi documenti e circostanze di fatto accertate e verificate indipendentemente da Repubblica indicano che fu l'intera catena di comando dell'Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009.
L'operazione di cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni, e comunicazioni all'autorità giudiziaria, si consumò tra il 23 e il 27 Ottobre, con ordini trasmessi per via gerarchica ed ebbe il suo sigillo in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d'armata e comandante interregionale dei Carabinieri "Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise).
Con lui, almeno tre gli ufficiali coinvolti. L'allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza).
I fatti, dunque. A cominciare dall'ultimo fotogramma di questa storia. La mail con l'ordine di manomettere la verità Il maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante della caserma di Tor Sapienza, è un uomo previdente. Ha conservato per nove anni la sua corrispondenza email e ogni documento utile in grado di dimostrare da chi e quando arrivò l'ordine di falsificare le carte da cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, in una camera di sicurezza di quella caserma, venne trasferito dopo il pestaggio in attesa del processo per direttissima dell'indomani. Quella notte, Stefano mostrava segni evidenti del pestaggio che aveva appena subito.
Ma era necessario che si costruisse una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla magrezza costituzionale del "tossico", alla sua epilessia. A maggior ragione per costituire futuri argomenti per la scienza medica nel suo apparente e ignavo brancolare nel buio nello stabilire le cause della morte di Stefano. Labriola, pure indagato per falso, è convinto che, trascorsi nove anni, nessuno verrà a ficcare il naso in quelle carte che custodisce nel suo alloggio di servizio, all'interno della caserma che comanda.
Ma sbaglia, perché quando, all'inizio della scorsa settimana, gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del pm Giovanni Musarò, bussano a Tor Sapienza, capisce che il gioco è finito. Chiede che gli venga risparmiata la perquisizione del suo alloggio di fronte agli altri militari. E, spontaneamente, consegna tutte le carte e i file che ha appena finito di mettere insieme perché - dice - sarebbe stata comunque sua intenzione consegnarle al suo avvocato Antonio Buttazzo nel pomeriggio di quello stesso giorno.
Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l'ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell'arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi- bis - ha detto la verità.
"È vero, modificai la relazione di servizio - aveva spiegato. Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l'ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza". Il falso cucinato da Colombo per ordine del Comando di Compagnia prevede che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venga rimpicciolito per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si noti la manomissione testuale, l'iniziale ricostruzione ("Cucchi Stefano riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare. Viene aiutato a salire le scale") in un passaggio assai più prolisso.
Che precostituisca spiegazioni alternative alla domanda sul perché quel ragazzo non riesca a stare sulle gambe: "Cucchi Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza". Anche l'annotazione del carabiniere Colicchio viene manomessa per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica. In questo caso, a dire di Colicchio, senza che lui ne abbia contezza. Sentito anche lui in aula il 17 aprile, Colicchio ricorda infatti come suo il testo in cui era possibile leggere che Cucchi "dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia".
Ma esclude di aver mai redatto e firmato un'annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano "dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio".
Il 18 ottobre, per quasi nove ore il maresciallo Colombo Labriola ha risposto alle domande del pm Giovanni Musarò. Il suo verbale è stato secretato e non ci vuole un indovino per immaginare che la sua deposizione si sia trasformata in una chiamata in correità dell'intera scala gerarchica. Di cui, per altro, questa storia è per altro disseminata. La riunione del 30 ottobre e l'appunto farlocco Che il carabiniere Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, sia stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell'allora Comandante provinciale Vittorio Tomasone, è di per sé una circostanza che autorizzerebbe, da sola, a pensar male.
Ma è quel che accade il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell'intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano. La riunione cade a una settimana esatta dalle 48 ore che possono travolgere l'intera Arma e mettere fine alla carriera di un ufficiale - Tomasone - che è la luce degli occhi dell'allora Comandante generale Leonardo Gallitelli ed è considerato il suo naturale successore ("Sono la stessa cosa", si diceva di loro). Il 23 ottobre Ilaria Cucchi ha infatti fatto conoscere al Paese la storia di Stefano.
Il giorno successivo, quattro carabinieri vengono arrestati per il ricatto "trans" ai danni dell'allora Governatore del Lazio Piero Marrazzo. Tomasone è sotto pressione. Segue ossessivamente le cronache di quei giorni su Cucchi e ai giornalisti che gli chiedono, giura sulla propria persona, sul suo "onore di carabiniere" che "l'Arma non c'entra". Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di verbale. Se ne tacerà l'esistenza alla magistratura che indaga. E c'è un motivo. La riunione deve infatti verificare che "le carte siano a posto" e i nervi dei protagonisti "saldi".
Diciamo pure che è una rappresentazione ad uso dei presenti per rassicurarli nella congiura del silenzio. Perché, come tutti i presenti sanno, i falsi sono già stati tutti cucinati. A quello più grossolano effettuato, tra il 16 e il 17 ottobre, dai militari direttamente coinvolti nella caserma Appia e in quella Casilina dall'arresto di Stefano, con lo sbianchettamento del registro di fotosegnalamento, se ne sono infatti aggiunti, tra il 23 e il 27, di più raffinati. Che hanno richiesto "testa" e coordinamento della catena gerarchica.
Perché prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo. Sono stati infatti manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell'annotazione del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio (viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto sottratta al fascicolo).
Si devono correggere le annotazioni di servizio della stazione di Tor Sapienza (abbiamo visto come). Si deve fare in modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell'arresto di Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni. Il sigillo dell'operazione è in un appunto firmato dal colonnello Casarsa, comandante del Gruppo Roma che l'Arma trasmetterà alla Procura.
Si dà atto di un'inchiesta interna che non c'è mai stata e che, naturalmente, assolve i militari. Si dà atto di accertamenti che non sono mai stati condotti per il semplice motivo che, nelle caserme coinvolte dalla morte di Stefano, si è lavorato a falsificare le carte.
La Repubblica