Carceri, perché cresce la violenza
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STORIA Carceri, perché cresce la violenza 04/06/1975 

Lunedì 2 giugno, festa della Repubblica. Da alcune ore, insieme con altri giornalisti, con carabinieri, guardie e magistrati sono chiuso nell'androne del castello svevo. Dal cancello alle mie spalle, che dà sui giardini pubblici, giungono folate di calore e il brusio della folla in attesa di notizie.

Al di là del portone di ferro che mi sta di fronte, e immette nel penitenziario, la sanguinosa rivolta di Giuseppe Sansone, Gianfranco Mayer, Michele Lacriola e Roberto Maurini sta per concludersi. Accanto al centralino telefonico, un appuntato, gli occhi arrossati dalla fatica, aspetta una comunicazione dall'interno 51, il terzo braccio, dove i detenuti sono asserragliati con gli ultimi due ostaggi. Manca un quarto alle 18, Oltre il portone risuona un grido: “Escono!”. Una guardia apre, la seguiamo, e ci troviamo in un cortile delimitato dall'infermeria e dal magazzino. Incontro a noi, soffocati dagli abbracci dei commilitoni, corrono la guardia Giovanni Novella e l'appuntato Gaetano Padri. Sono gli ultimi ostaggi: i rivoltosi hanno liberato anche loro, si arrendono, chiedono soltanto la revisione dei processi e il trasferimento ad altre carceri.

Vedo molti volti rigati di lacrime, i primi sorrisi dopo ventiquattr'ore di angoscia. “Vogliono fare una dichiarazione alla stampa e alla tv - ci dice il procuratore Salvatore Astuto -. Vi aspettano nelle loro celle”. Mi guardo intorno. Davanti a me c'è un altro portone di ferro, dietro, l'altissimo muro di cinta. Dai camminamenti si scorgono i fucili mitragliatori e le bombe lacrimogene dei soldati. La guardia apre di nuovo, e ci troviamo tra decine di detenuti. Ci fissano in silenzio, disposti su due ali. Alcuni sono a torso nudo, altri in calzoncini. Si spostano per lasciarci passare. Superiamo questo secondo cortile, col laboratorio, un deposito, la biblioteca, e giungiamo a quello centrale. Mi fermo. Non scorgo un filo d'erba, è tutto pietra, dalle pareti possenti dell'edificio a due piani sporgono innumerevoli inferriate.

Il castello è opera di Federico II, dicono che fosse inespugnabile. Mi assale la sensazione agghiacciante che non si possa più uscirne. Saliamo due rampe di scale, circondati da altre decine di detenuti, tra mucchi di rifiuti e in un'aria maleodorante. Sbuchiamo in un corridoio: da un lato ci sono le inferriate, dall'altra, su un duplice livello, le celle, spaventosi cubicoli di un metro e mezzo per tre, alcune nascoste da coperte e giornali. In fondo, intorno ad un tavolo, ci attendono Giuseppe Sansone, Gianfranco Mayer, Michele Lacriola e Roberto Maurini. Stanno bevendo birra e fumando, ancora sudati, ma calmi. Accanto a loro, i familiari; Giuliana Cabrini, la giovane torinese che si è offerta come ostaggio; Agreppino Costa e Michele Giglio, i due carcerati di “Lotta continua” che hanno svolto opera di mediazione.

Credo che non dimenticherò mai questa conferenza stampa, coi detenuti assiepati intorno a noi, nel caldo soffocante. I giovani che ci parlano di protesta sociale, di diritti civili, di maturità politica sono gli stessi che poche ore prima hanno ferito gravemente un appuntato, e che erano pronti ad uccidere per riconquistare una libertà tolta loro dalla legge fino al 1990, al 1995, al 2000. I loro occhi non conservano nulla della rabbia e della disperazione che li hanno spinti alla rivolta, né tradiscono il loro passato di omicidi e di rapinatori. Sono occhi non di gente vissuta nella violenza e per essa condannata, ma di gente che si sente vittima di un sistema iniquo.

Annoto sul taccuino le loro dichiarazioni e li osservo. Giuseppe Sansone è alto, ha il viso affilato, il naso adunco, un principio di barba, l'accento piemontese. Lo descrivono come il più instabile di umore e il più spietato. L'emigrazione a Nord dalla nativa Sicilia, il contatto con l'abbondanza e i privilegi lo hanno scosso e inasprito. Gianfranco Mayer l'ho già incontrato prima, mentre dall'androne telefonava al fratello, in carcere a Fossano. Lo chiamano lo zingaro per la sua origine slava, è basso, forte; attribuiscono a lui il ferimento dell'appuntato Giuseppe Mericcio. Michele Lacriola è poco più che un ragazzo. Tiene il capo chino, per tutta l'intervista non guarderà nessuno in faccia. Mi colpisce Roberto Maurini. E' pulito, elegante, con gli occhiali, il suo linguaggio ricorda quello dei funzionari di partito. Insieme con Giuseppe Sansone, si definisce comunista ortodosso, al di fuori dei gruppuscoli, “dedito alla lotta sino alla distruzione del regime borghese”.

Osservo tutti gli altri detenuti. Ascoltano impassibili, senza un bagliore di partecipazione sul volto. Sono diversi: più anziani, con meno letture, forse rassegnati. Per ventiquattr'ore, sono restati a guardare, estranei alla rivolta, diffidenti. Mi avvio verso le scale, mi fermano. “Signore - mi dicono - scriva che qui non c'è malanimo, che ci siamo comportati bene, e tutto è a posto”. Mi attardo nei corridoi e nel cortile. E' sera, ma non sì respira lo stesso, e il selciato bolle. Il castello è adibito a penitenziario dal 1905, probabilmente da allora poco o nulla è cambiato. Mancano gli impianti igienici, il verde, le strutture lavorative e ricreazionali.

Il personale è insufficiente, 75 guardie per 326 detenuti, e gira disarmato, come prescrive il regolamento. Esistono figli e figliastri, secondo il gergo carcerario, cioè raccomandati e perseguitati. Gli appuntati fanno del loro meglio, chiudono a chiave le celle solo di notte. Ma l'impressione è lo stesso di una tomba, di una vita senza scopo. Si vegeta nel disagio e nello sconforto. Parlo con Agreppino Costa, il carcerato di “Lotta continua”. E' un ladro di capolavori d'arte e deve scontare ancora tre anni. E' stato in prigione anche con Notarnicola, l'autore del documento del '72 “Liberate tutti i dannati della terra”. “Qui si sta meno peggio che altrove - mi dice -. Ma ci sono ugualmente ingiustizie e soprusi, creati talora da noi stessi; ci sono i coltelli ricavati dai cucchiai e le lance ricavate dalle gambe dei letti; ci sono le amicizie particolari, le protezioni, i ricatti.

E' un difetto del sistema. In Italia si fa poco per educare il detenuto, per riabilitarlo; in genere si esaspera la sua ira”. Forse non è possibile tracciare un ritratto di prigioni nel loro interno, descriverne l'orrore fisico, la disperazione del distacco dalla famiglia e dagli amici. Come cogliere l'angosci di mille, diecimila giorni tutti uguali, tutti inutili, il secondo più terrorizzante del primo, e così via all'infinito? Come esprimere la disumanità della certezza di non poter tornare più al mondo libero o di tornarvi solo da vecchio? Come indicare la vergogna di un'esistenza non più intima, privata, ma esposta all'indegnità comune? E' chiaro che l'errore sta non nel principio dell'espiazione, necessaria alla sopravvivenza della società civile, ma nel modo in cui lo si realizza, nell'ambiente a cui lo si limita.

Esco dal castello svevo pensando alle ultime frasi di Agreppino Costa: “Le riforme non si concretano, ma molte cose sono cambiate nella popolazione carceraria. C'è stata nei giovani una presa di coscienza delle proprie responsabilità e dei propri diritti”. E' un fenomeno distinto dalla propaganda dei Nap e delle Brigate rosse. Il rischio è che lo Stato, tardando a prenderne atto, lo abbandoni alla strumentalizzazione eversiva. Il problema dei penitenziari è fondamentalmente un problema sociale, ma sta assumendo pericolose coloriture pseudo-politiche. Diventano così possibili esplosioni a catena, con gravi riflessi anche esterni.

Oggi, nelle nostre prigioni, ci sono criminali comuni che non sì considerano più tali, forse per comodità, e rivendicano la qualifica di perseguitati politici. Il movimento, incominciato nel '68, con la triplice rivolta di San Vittore e con quelle di Poggioreale e di Torino, invece di essere incanalato in una protesta non violenta, minaccia di sfociare nel sangue della rivoluzione armata. L'anno scorso Alessandria ha vissuto una terribile tragedia. Ieri, ad Augusta, si è riusciti ad evitare che fosse ripetuta. Ma è stato un caso. Le armi con cui si debbono prevenire episodi del genere non sono sicuramente quelle dell'intervento dei familiari, di singoli, come Giuliana Cabrini, o quelle degli umori dei detenuti stessi e delle circostanze esterne.

La Stampa 4 giugno 1975


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